martedì 13 luglio 2021

Fobie

 
Matteo ha paura delle api. Non è proprio una cosa da eroi, però non può farci niente, quando in primavera i pollini gonfiano l'aria e ingolosiscono gli insetti lui per la paura si imbacucca tutto ed esce completamente coperto, anche se suda come una trota scongelata. Lo prendono in giro e lo chiamano la fava umana, che è un gioco di parole tra favo, cioè la casa delle api, e fava, che in toscano è uno di quegli insulti pe' sta' allegri. Non gli piace nemmeno essere toccato, in primavera, a Matteo, perché ha sempre paura che possa essere un'ape e quindi per non correre rischi evita ogni contatto.
Chiara ha paura dei germi, in particolare di ingoiarli e quindi tutto ciò che beve deve essere chiuso, sterilizzato ed etichettato. Niente acqua dalle fontanelle, che in primavera poi è buonissima perché ha il sapore delle nuvole che sgelano, niente birrette alla spina, che a mio nonno le aveva ordinate il dottore come antidepressivo. Quando non c'è la possibilità di bere da qualcosa di sigillato, Chiara ha imparato a dissetarsi inghiottendo minuscoli sorsi di saliva, il che la fa sembrare un pesce rosso molto concentrato. Non c'è sorgente di montagna o vino della casa che tenga: lei, se non è chiuso ermeticamente, non beve.
Si incontrano ogni giorno al parco, ma non lo sanno. Lei va a correre perché vuole essere magra e si porta appresso una bottiglietta d'acqua a chiusura ermetica come il cane degli alpini con la grappa al collo. Lui lo attraversa per andare a casa e sembra un mimo, senza nemmeno un lembo di pelle esposto tranne la faccia, che mostra solo perché una signora l'ha denunciato ai vigili come pervertito potenziale e loro hanno dovuto multarlo per esibizionismo.
Quando la coda di cavallo di lei frusta l'aria mentre corre si produce un lievissimo moto ventoso che arriva fino a lui e gli dà un brivido che non si spiega, allora si tira la zip della giacca su fino alla bocca. Contemporaneamente lei avverte le vibrazioni di calore prodotte dalla frizione dei vari strati di vestiti di lui e d'istinto stringe la bottiglietta d'acqua, tenuta fresca da una guaina termica. 
All'altezza del faggio rosso si incrociano, lei al trotto con entrambe le mani strette alla bottiglietta, lui scivolando silenzioso, mani in tasca e sguardo a zigzag per intercettare ronzii. Non sono importanti l'uno per l'altra, lei per lui è un frullo che allontana api potenziali, lui per lei è una guaina di forma umana, però ogni giorno si passano a fianco e senza saperlo si vedono più spesso di qualsiasi altra persona nella loro vita.
Il primo di maggio Chiara è di fretta, dopo la corsa deve andare a trovare la madre che non vede da tempo e la cosa la innervosisce, così non aggancia con la consueta dovizia la bottiglietta al marsupio da jogging. Matteo sta attraversando il parco, come sempre completamente vestito perché la stagione delle api è in corso e anzi in maggio sono ubriache di fiori e moleste peggio che mai. Quando Chiara arriva al faggio rosso la sua andatura è nervosa, al punto che per uno scatto di gamba la bottiglietta si sfila dal marsupio e cade a terra, rotolando nell'erba dritta tra i piedi di Matteo. Lui si blocca, non può fare altrimenti. In modo incerto raccoglie con la mano guantata la bottiglietta tutta sporca di terra e alza gli occhi verso di lei, che si è fermata a sua volta. Si guardano, e finalmente si vedono.
La bottiglietta è lurida di terra ma il ragazzo che l'ha raccolta porta i guanti, i germi non passano. Chiara si avvicina e Matteo sente un ronzio, si volta di scatto ma le api non ci sono. Lei si fa ancora più vicina e tende il braccio, lui fa per lanciarle la bottiglia ma poi la pulisce con il guanto e gliela mette in mano. Chiara lo guarda in viso, lui ha il cappuccio tirato fino alla fronte e dentro due occhi azzurri come il mare senza bottiglie.
In giugno Matteo cammina a testa scoperta e sente il cielo blu che gli entra nelle orecchie. Chiara ha comprato due ganci nuovi per il marsupio e si porta una bottiglietta in più, una con l'etichetta di un'ape e l'altra di una rosa. In luglio non si ricorda più quale delle due è la sua, così ricomincia a portarne una sola, da dividere. In agosto Matteo arriva al parco con una maglietta con sopra l'ape Maia. A settembre Chiara non trova più la sua bottiglietta, arriva al parco preoccupata e sotto il faggio rosso la trova, nelle mani senza guanti di Matteo. Lui le sorride e dice: « Ti amo. Proviamo? »

 

venerdì 30 aprile 2021

Il baio blu

Dirò oggi le vicende d'un baio                               
bello assai, di furia e passione pieno.
Altre virtù avea, e non solo un paio
dentro di sé, ma le teneva a freno
forse perché sentiva che nel saio
della sua mente nuoceva di meno
tenere le emozioni, anziché fuori
ma così si perdeva pioggia e fiori.
 
Il suo manto era vario, e cangiava
a seconda del sentir interiore:
se stava bene, era nero e brillava
mutava in blu se provava dolore.
Così dall'aspetto si disvelava
cosa portava il baio dentro al cuore
e la pelle mostrava finalmente
quello che non potea capir la gente.
 
Deluso e spaventato dal suo manto
rivelatore, solea rifugiarsi
nella tana, senza nessuno accanto.
In fondo non spiaceva crogiolarsi
nella tristezza, dolceamaro canto!
Così quando percepiva mutarsi
in blu, dentro sé stesso si chiudeva
e poco o niente sapere voleva.
 
Andava passeggiando per la zona
un'altra bestiolina complicata
pensava d'esser gatto, poverona
e invece aveva l'anima spaccata:
volendo essere un'unica persona
non s'era mai per davvero accettata.
Che bellezza se tutti gli animali
fossero sé stessi, anziché uguali!
 
Nitriva il baio solo nella tana
e presto lo sentì l'animaletta
quel verso le sembrava cosa strana
di lì lei si diresse in tutta fretta.
Infatti è cosa nota, ancorché umana
che insieme assai di più ci si diletta.
Immaginate allora il suo stupore
quando vide il baio cambiar colore!
 
"Cavalli blu non ne ho visto ancora mai"
pensò, e intanto il baio la guatava
si domandava se gli portasse guai
la bestiola che dritto lo fissava.
Infine lei parlò, e gli disse: «Sai,
è bello quel tuo blu», e lui restava
zitto a cercare dentro sé parole
fin lì celate alla luce del sole.
 
«Divento blu quando son triste», disse
il baio, e lei si emozionò tutta
«Io invece cerco solo cose fisse
in me, ma fallisco e mi sento brutta»
così rispose la bestiola, e scrisse
con la zampina sulla terra asciutta
il suo nome col punto di domanda
a chiedere: chi siamo, chi ci manda?
 
E mentre l'animala si scopriva
mostrando le sue pene e i suoi dolori
il baio assai commosso si sentiva
non più tutto era dentro, bensì fuori.
Poi quando un lacrimone fuoriusciva
mutava anche il colore dei suoi pori:
un poco appare bruno, un po' turchino
ma ciò che conta è restarsi vicino. 

lunedì 8 marzo 2021

Tupperware

Mio padre giovane era un cane selvatico dal pelo lustro e silenzioso, fatto per l'azione. Da piccola non me lo ricordo, la sua assenza è stata la grande presenza della mia infanzia. I miei disegni di bimba sono barbe castane che diventano strade perse in orizzonti di matita. Ricordo passi, porte che si aprono e chiudono, i momenti diventano rumori che cercano di riempire gli spazi.
Negli ultimi anni, però, è come se stesse diventando domestico, si aggira in casa mentre parlo con mia madre annusando intorno a noi e ascoltando, ogni tanto interviene con frasi che sono sassi piatti e lisci in uno stagno profondo. Quando si invecchia si ritorna bambini, mi aveva spiegato la nonna prima di contrarre l'Alzheimer, gli uomini quando invecchiano si inteneriscono, vogliono stare insieme, anche i più ruvidi.
Alla mia età, mio padre era un professore supplente che aspettava l'estate per solcare il mare e lanciarsi in viaggi lunghissimi da cui tornava puzzando di spezie e sedile d'auto, gli occhi verniciati di blu e la gola secca a forza di improvvisare lingue sconosciute, il telefono di casa esausto per tutte le chiamate senza risposta. Una volta non ha preso parte agli esami di riparazione perché in India non poteva ricevere comunicazioni, e quando si è presentato a scuola a settembre ha avuto solo una lavata di capo dal preside, e nemmeno troppo decisa. Poi ha cambiato lavoro, ha iniziato ad andare in ufficio e i viaggi si sono ristretti, insieme alle camicie di mia madre che le salivano sempre più sulla pancia tonda con me dentro. Dicono che sono stata concepita in Scozia, in mezzo a castelli solitari, e mi sembra molto probabile.
Mentre crescevo, i treni da pendolare hanno preso il posto dei biglietti di sola andata e delle auto a noleggio sporche di deserto, il vuoto tra gli scompartimenti tornava a casa con lui nelle tasche del suo completo e si depositava tra noi a cena, trasformandosi in silenzio.
Quando ho compiuto quindici anni, andava molto di moda tra le adolescenti il telefilm Beverly Hills, che ai miei faceva schifo perché incarnava tutto il vuoto catodico del consumismo americano. Non ero una grande fan, a dire il vero non lo guardavo nemmeno, ma un pomeriggio di ghisa tipicamente veneto sono tornata a casa da scuola, e incorniciato in camera mia c'era un poster di Luke Perry, star della serie e idolo delle ragazzine. Non ricordo la mia reazione, né di aver chiesto come ci fosse finito, ma sapevo che dietro c'era una mano invisibile, una specie di dio muto che parlava attraverso le cose. Poco tempo dopo ci ho attaccato sopra la foto di Che Guevara che legge Goethe, senza togliere la cornice con il poster dentro. Non ne abbiamo mai parlato ma a un certo punto la cornice è stata spostata, rimossa come le cose che non riusciamo a sostenere.
Poi sono stata io a partire e sparpagliarmi per il mondo, pagliuzza bruna nel blu. Nel Sahara ho raccolto in una borraccia la sabbia rossa che poi mi hanno fatto buttare, volevo metterla accanto a quella raccolta da lui in Tunisia durante il viaggio di nozze, ma alla fine è rimasta solo quella, sigillata a parlare di entrambe le nostre traversate del deserto.
Adesso che vivo sola, se vado a pranzo a casa non torno mai a mani vuote, mia madre prepara delle extraporzioni di cibo che mio padre stipa in un tupperware da portare via, e torno da me stringendo il vetro trasparente dalla pancia calda e farcita di colori. Ogni settimana riporto il contenitore vuoto e me ne vado con quello pieno, mio padre lo riempie con dovizia, con la cura dei lavori antichi. É solo una cosa, un oggetto che contiene, o meglio che può contenere, anche se nasce vuoto.

giovedì 28 gennaio 2021

Un momento da niente

La macchina è la mia, verde di stagno, non l'ho mai presa sul serio anche se mi porta in giro da almeno cinque anni. Ci sono cose che non si realizzano, tipo essere adulti, nemmeno quando paghiamo le bollette, facciamo il 730 da soli o ci prendiamo cura davvero di qualcuno. Per me è così, non è mai abbastanza, neppure gli occhi bucati di un adolescente che si bevono le mie parole bastano a legittimarmi, non nel profondo. Penso così mentre guidi, ecco questa è un'altra cosa, non ho mai fatto un incidente eppure preferisco sempre che guidi qualcun altro, è atavico, non credo abbia troppo a che fare con l'incomunicabilità di mio padre nelle sue lezioni di guida, anche se di sicuro non aiuta, allora piuttosto vado a sbattere contro un muro vero, almeno è più concreto del silenzio, se parlare senza ascoltare è silenzio. 
Sono stanca, ho il jetlag ma per nessun motivo avrei rinunciato al nostro viaggio, potrebbe essere l'ultimo ma preferisco non pensarci. Tanto mi arriverà la consapevolezza come un colpo alla nuca una volta arrivati in campeggio, tutte le tende montate vicine sono bandiere, steli in un prato, si stagliano al sole nella loro realtà, mentre la nostra starà su due giorni e poi addio. Non riesco a capire come posso ogni volta infilarmi in situazioni temporanee, transitorie, quando avevo vent'anni va bene ma adesso mi sembra di nuotare e non riuscire a prendere aria tra una bracciata e l'altra. 
Fa molto caldo, il sole di agosto opprime l'abitacolo, ho dormito gran parte del tragitto mentre tu spingevi il motore fino ai 130, eppure io dormivo. Il miracolo dell'addormentarsi, ecco un'altra delle mie cose, ho superato i 30 ma ancora non riesco - quasi mai - a semplicemente, naturalmente dormire. Antichissimo anche questo, pensavo che un giorno sarei cambiata, e invece. Quand'è esattamente che si diventa adulti che non mi ricordo?
« Ci fermiamo a riposare » dici tu, non è chiaro se come invito o domanda, esci dall'autostrada e ti infili agilmente dentro vie che non conosci, un cane fiducioso.
Io un po' ho fame e un po' mi scappa la pipì ma non lo dico, l'autogrill l'abbiamo passato. Tu giri tra spiazzi e divieti, alla fine ti fermi di fianco a un prato apparentemente libero. Smontiamo.
Non abbiamo mai più parlato di queste cose, chissà se le ricordi, chissà per te che hanno significato. Il pensiero della loro finitezza mi genera un male fisico, inconsolabile. É quel genere di dolore che si prova quando vorremmo tantissimo piangere, ma non riusciamo. Ricordo che a un altro uomo col tuo stesso nome avevo detto: « Tu hai paura delle fini », potenza del contrappasso. 
Ti seguo in silenzio mentre ti avvii verso il prato con i nostri asciugamani. Ci sono due alberi gemelli, le loro ombre proiettano sull'erba un'amaca di foglie scure. Tu stendi gli asciugamani vicini all'ombra, piazzi il tuo zaino a un'estremità e ti accomodi. Poi mi guardi, mi sorridi e dici: « Dai, vieni! ».
Ecco, io davvero non vorrei stendermi al tuo fianco, con la testa sulla tua spalla che si solleva e abbassa man mano che il respiro diventa sempre più lento e regolare perché ti stai, semplicemente e naturalmente, addormentando. Non perché non lo voglia tantissimo, e infatti lo faccio, ma perché so che questo momento da niente, noi distesi sotto a un albero con tu che dormi e io che vorrei ma nemmeno faccio finta perché va bene così, ecco questo momento con la mia faccia che diventa ruvida contro la tua maglia ma non te lo dico perché non ti voglio svegliare e fa niente se mi si blocca il collo perché tanto non mi sposto, questo momento finirà perché noi finiremo. E mi dico che non importa se posso ancora descrivere il sapore rosso della tua maglia, l'istantanea azzurra di un pomeriggio estivo in mezzo all'Italia, preciso come un addio, tutto questo non importa se poi finisce e ci separiamo. Credo che sia anche questa una delle mie cose, o forse è la cosa sotto a tutto il resto: esserci, e rimanere. So che sempre è una parola grande, ma vorrei potermi sentire piccola per dirla, e basta.