lunedì 8 marzo 2021

Tupperware

Mio padre giovane era un cane selvatico dal pelo lustro e silenzioso, fatto per l'azione. Da piccola non me lo ricordo, la sua assenza è stata la grande presenza della mia infanzia. I miei disegni di bimba sono barbe castane che diventano strade perse in orizzonti di matita. Ricordo passi, porte che si aprono e chiudono, i momenti diventano rumori che cercano di riempire gli spazi.
Negli ultimi anni, però, è come se stesse diventando domestico, si aggira in casa mentre parlo con mia madre annusando intorno a noi e ascoltando, ogni tanto interviene con frasi che sono sassi piatti e lisci in uno stagno profondo. Quando si invecchia si ritorna bambini, mi aveva spiegato la nonna prima di contrarre l'Alzheimer, gli uomini quando invecchiano si inteneriscono, vogliono stare insieme, anche i più ruvidi.
Alla mia età, mio padre era un professore supplente che aspettava l'estate per solcare il mare e lanciarsi in viaggi lunghissimi da cui tornava puzzando di spezie e sedile d'auto, gli occhi verniciati di blu e la gola secca a forza di improvvisare lingue sconosciute, il telefono di casa esausto per tutte le chiamate senza risposta. Una volta non ha preso parte agli esami di riparazione perché in India non poteva ricevere comunicazioni, e quando si è presentato a scuola a settembre ha avuto solo una lavata di capo dal preside, e nemmeno troppo decisa. Poi ha cambiato lavoro, ha iniziato ad andare in ufficio e i viaggi si sono ristretti, insieme alle camicie di mia madre che le salivano sempre più sulla pancia tonda con me dentro. Dicono che sono stata concepita in Scozia, in mezzo a castelli solitari, e mi sembra molto probabile.
Mentre crescevo, i treni da pendolare hanno preso il posto dei biglietti di sola andata e delle auto a noleggio sporche di deserto, il vuoto tra gli scompartimenti tornava a casa con lui nelle tasche del suo completo e si depositava tra noi a cena, trasformandosi in silenzio.
Quando ho compiuto quindici anni, andava molto di moda tra le adolescenti il telefilm Beverly Hills, che ai miei faceva schifo perché incarnava tutto il vuoto catodico del consumismo americano. Non ero una grande fan, a dire il vero non lo guardavo nemmeno, ma un pomeriggio di ghisa tipicamente veneto sono tornata a casa da scuola, e incorniciato in camera mia c'era un poster di Luke Perry, star della serie e idolo delle ragazzine. Non ricordo la mia reazione, né di aver chiesto come ci fosse finito, ma sapevo che dietro c'era una mano invisibile, una specie di dio muto che parlava attraverso le cose. Poco tempo dopo ci ho attaccato sopra la foto di Che Guevara che legge Goethe, senza togliere la cornice con il poster dentro. Non ne abbiamo mai parlato ma a un certo punto la cornice è stata spostata, rimossa come le cose che non riusciamo a sostenere.
Poi sono stata io a partire e sparpagliarmi per il mondo, pagliuzza bruna nel blu. Nel Sahara ho raccolto in una borraccia la sabbia rossa che poi mi hanno fatto buttare, volevo metterla accanto a quella raccolta da lui in Tunisia durante il viaggio di nozze, ma alla fine è rimasta solo quella, sigillata a parlare di entrambe le nostre traversate del deserto.
Adesso che vivo sola, se vado a pranzo a casa non torno mai a mani vuote, mia madre prepara delle extraporzioni di cibo che mio padre stipa in un tupperware da portare via, e torno da me stringendo il vetro trasparente dalla pancia calda e farcita di colori. Ogni settimana riporto il contenitore vuoto e me ne vado con quello pieno, mio padre lo riempie con dovizia, con la cura dei lavori antichi. É solo una cosa, un oggetto che contiene, o meglio che può contenere, anche se nasce vuoto.