lunedì 19 dicembre 2022

Notte portoghese, cavallo bianco

Cammino rapida, quasi a scatti, ogni svolta è un’idea, ogni incrocio un pensiero fisso che si sbroglia. Le vie si dipanano come vene del braccio, il tuo, pulsano in maniera preoccupante, avrei anche potuto accorgermene. Quella che sto attraversando adesso è affiancata da un filare di alberi, ma le foglie sono stanche, come masticate dalla luce bieca della luna. In fondo alla strada si intravede una piccola chiesa, ce n’è una per ogni freguesia, anche se della toponomastica di Lisbona quello che più mi colpisce è la quantità di centri commerciali, praticamente uno ad ogni fermata della metro. Per arrivare all’ingresso del capolinea ne ho ancora, di strada, sempre sperando di riuscire a prendere l’ultima corsa, e sennò fodes tudo. Non sono uscita abbastanza in fretta da casa tua.
La cosa buffa è che, all’inizio, in quel condominio di Portela ci abitavo io, al piano inferiore, insieme a una ragazza spagnola che non ho mai visto e una estone convertita, il cui viso bianchissimo faceva tutt’uno col velo che non toglieva mai. Quando è stato altrettanto chiaro che portare alcol e uomini in casa avrebbe creato problemi me ne sono andata, ricordo che voltandomi dalla strada l’ho scorta dietro il vetro che mi guardava, anche se di solito evitava le finestre per non essere vista da qualche uomo all’esterno. Da quando sono tornata nel condominio perché al piano sopra ci abiti tu, non l’ho mai incontrata. Chissà se vive ancora lì, se ci ha mai sentiti urlare e se sì, dove ha collocato le grida nel suo universo di pensiero.
È un quartiere tranquillo, residenziale. Manco a dirlo c’è un piccolo centro commerciale - dovrei ritrovarmelo sulla destra tra poco -, un campo sportivo, il Pingo Doce. Nel negozio di animali ho preso due pesci rossi, siamo io e te, è stata un’impresa trasportarli di nascosto a casa tua, in combutta con i coinquilini. Probabilmente ora finiranno a nuotare nelle tubature del water, forse felici.
La tua rabbia è questo selciato che vuole essere calpestato senza cambiare strada, pietre portoghesi inscalfibili, inamovibili. Non c’è terreno erboso fino alla fermata, devo attraversare sassi e cemento come stanze della mente, porte ermetiche sulla torcia del cuore. Quando ti infuri perdi l’orientamento, sei una città di notte senza indicazioni.
Una volta ha chiamato tuo padre, ne intuivo la faccia sformata dallo schermo del telefono, la sua risata sapendo che ero lì con te sembrava un canto di upupe. Doveva essere molto fiero, dovevi essere molto fiero. Tra fiero e furia cambiano poche lettere, e la rabbia si trasmette col sangue se non si accende la luce al momento giusto. Mi ha cresciuto la TV, racconti, visualizzo uno schermo luminescente proiettato nella pellicola nera di occhi bambini.
Ora mi ritrovo al limitare del campo sportivo che confina con un grande parco, circondato da una rete. Il verde dell’erba è un’ombra scura estroflessa sul marciapiede, il campo sembra non finire mai. Mezzanotte meno cinque, la metro sta per partire. Accelero il passo, costeggio la rete. Ad un certo punto, una sagoma si staglia.
Forse è la suggestione di tutti i film e libri con protagoniste femminili che scappano di notte, forse è un esercizio che tutte facciamo, cosa succede se adesso vengo aggredita, sarò forte, urlerò, farò come la ragazza in quel racconto di Wallace che si salva dalla morte con parole d’amore per il suo stupratore. Se fossi tu ad assalirmi ti direi va tutto bene, non è colpa tua, però lasciami amore mio, dobbiamo lasciarci, chissà se ti calmeresti o al contrario ti gonfieresti ancora di più, bestia, bambino ferito, cammino forte fortissimo ora per superare l’ombra chiara che incombe, un flash abbagliante dal passato.
Anche il bianco della tua sclera risalta particolarmente quando ti agiti, sei incapace di contenerti come di perdonarti, da piccolo risultavi sempre primo nei test attitudinali e allora perché andavi male a scuola, nessuno capisce niente mi ripeti stringendo una canna immaginaria che non fumi più perché ti ha quasi ucciso, una piccola canna, forse la furia serve a riempire gli spazi vuoti della tua sagoma d’uomo. Penso alle sagome disegnate a terra sulle scene del crimine, mentre supero la rete e affronto l’ignoto.
Oltre le maglie della rete, un cavallo bianco mi osserva, fermo immobile nel cuore della notte. Sento la metro che parte sferragliando sotto di noi.

martedì 19 aprile 2022

Party

Like the Spanish city to me 
when we were kids
Dire Straits

 

È la notte dei fantasmi, fai attenzione, qualcuno nelle calles di Granada sta per lasciarci il cuore.

La festa è su più piani, primo calimocho e elettronica, secondo scambi di fluidi, terzo cocaina.

Le persone sono vomitate nelle strade, ingombre di ammassi che sembrano bolo, le sostanze girano come succhi gastrici. La serata inizia che è già quasi il giorno dopo, il botellon è la torcia del maratoneta nella notte chilometrica. Ci si perde, sono fatta, la tua mano unico gancio che mi tiene orientata, perno attorno a cui gira la mia testa sbronza. Al terzo piano non solo cocaina, dicono, si sentono nomi che sanno di giungla. Io sono vestita da Groucho, tu hai una ghirlanda fiorita in testa, direi che può andare. Saliamo, mi sale tutto.

Giù per le scale rovinano corpi, la musica è così alta che non so distinguere tra risa e urla. Il vino aranciato non mi interessa, le mie labbra sono già aspre abbastanza, si spaccano come zolle di terra arse, non riesco a chiuderle del tutto, è sempre così quando mi faccio. Passiamo davanti a uno specchio che restituisce l’immagine di un giardino, tu rosa, io veleno.

Al secondo piano trovo Viola, è vestita da pappagallo di pirata, si avvicina strepitando che è un costume di coppia ma non sa dove sia finito il suo Uncino. Io lo so, dov’è Uncino: piano tre.

Senza dovertelo dire mi sospingi verso l’alto, ci incastriamo alla perfezione solo quando non sono in me, sarà per questo che mi procuri sempre tu la droga. Ti amo, penso, poi me lo dimentico.

Al terzo piano c’è una festa indigena, Uncino stona tra le stoffe maculate e le teste pennute, la sua mano di ferro brilla nel buio come un presagio. Quando entri tu l’aria cambia colore, diventa soave e altissima, tutti si scostano perché i fiori sulla tua fronte sono buttafuori, buttafiori. Arrivo davanti a Uncino come per magia, invece sei tu che mi guidi. Uncino appena mi vede sorride e mi mostra tutti i suoi denti tristi: « Ayahuasca », dice.

Che bel nome Ayahuasca, se mi chiamassi così potremmo correre liberi nelle praterie o boschi o aiuole, sarei una dea dorata col capo sormontato di gemme e tu potresti specchiartici, sarei talmente importante che nessuno dotato di senno pronuncerebbe il mio nome invano, oppure andrebbe in deliquio, avrebbe visioni, s’innamorerebbe, t’innamoreresti anche tu. Sento la tua mano ancora intrecciata alla mia come un totem, mentre Uncino rovescia il capo all’indietro e inizia a rantolare.

Viola lo avvinghia, ha in bocca una canna screziata di cocaina, una zebra bianca e nera. Non l’abbiamo sentita arrivare, le pareti interne della mia bocca stanno crollando come la caverna del tesoro di Aladino. Uncino sta salmodiando, evoca mostri, sua madre fredda gelida e il biglietto del pullman in mano a quindici anni, sua sorella in clinica che non vede da quando, a Natale, suo padre ha rovesciato l’albero e poi se n’è andato, faceva caldo in modo innaturale, palme a dicembre, nemmeno il tempo può consolare se non si accorda allo stato d’animo, e poi sua nonna in una cassa e subito prima nelle fabbriche di jamon a insegnargli come salarlo, e poi Viola, Viola, pronunciando il suo nome talismanico si gira e la vede e rimane pietrificato dallo stupore. Li lasciamo così, lei che gli appoggia la canna tra le labbra dicendo non succede niente carinho, lui immobile che la fissa a occhi sbarrati, da qualche parte ho letto che Ayahuasca può uccidere attraverso la meraviglia, morte per stupore. Capitan Uncino statua di legno e il suo pappagallo invasato.

La tua mano mi porta al piano di sotto, ci sono delle stanze libere. Crollo su un letto e tu ti rovesci su di me come un fiume, ci spolpiamo fino a restare detriti, pelli appese tra le lenzuola. Il sonno è un coperchio implacabile sulle ciglia, nero e viola, ma non dura. Mi sveglio di colpo e cado dal letto, nuda.

Il pavimento è duro e freddo e io sono un mucchietto d’ossa. Non mi sono mai sentita così piccola. Sbircio in su, tu dormi senza vestiti, né freddo, né cuore. Mi alzo a sedere e le sostanze defluiscono da me di colpo, liquido amniotico al contrario, e mi sbagliavo, non mi sono mai sentita così piccola fino a ora, quando mi sollevo barcollando, ti copro col lenzuolo, infilo le mie cose e esco, nell’alba sporca e sobria, un piede davanti all’altro.

 

 

sabato 26 marzo 2022

Andrea

Hai le mani piccole, te le guardi e fai la faccia da alieno, sei buffo, piccolo buffo e rotto. Sembri un po’ Chicco, la tazzina de La bella e la bestia, piccola carina e crepata.
Mi dici, è molto importante che tu sia carina, io mi arrabbio un po’ perché non mi chiami mai bella e tu rispondi così, non so come reagire, incredibile che io me lo ricordi dopo tutto questo tempo.
Ricordo anche quando hai detto, mi scaldi qui, toccandoti il petto, mi chiedo quanto profonda potesse essere la caverna al suo interno se poi alla fine un po’ di calore ci arrivava, forse il drago dormiva.
Mi sveglio di notte, saranno le 4 ma non lo so di preciso perché in casa dei tuoi non avvisto orologi e il mio telefono chissà dov’è, sbalzato via insieme al letto, vago a piedi nudi tra muri non miei e ti trovo che giochi alla Play, ti giri sollecito con gli occhi incavati e dici ciao, ma no, torna a letto, sembra che canti, sembra sempre che canti, a volte rappi, a volte sei un oboe basso. Dovevamo sempre andarci, al karaoke, poi non hanno fatto la serata e nel frattempo non canti più.
Mi accompagni in giro per la città ad attaccare volantini per uno spettacolo teatrale, chissà come ti fa sentire, chissà se il contrappasso passa anche attraverso la carta, però ci vieni, non mi dici mai di no. Una volta addirittura mi recuperi in aeroporto portando la pizza, te l’ho chiesta io dopo una settimana di burro e patate in Estonia, scherzavo ma tu con gli scherzi fai sul serio, e mentre la mangio fredda tenendo il cartone sulle ginocchia sono felice di stare di fianco a te che guidi, però allo stesso tempo sento che non ci sei del tutto, guardi dritto verso la strada e un lago di mozzarella ci separa. L’unica volta che mi hai detto di no, io volevo che mi raggiungessi a un compleanno ma tu prima no poi sì poi non mi mandare faccine tristi, non sopporto le faccine tristiii, non capivo tutto questo accanimento contro le emoticon ma ora forse sì. Le maschere sono sempre a bocca in su e in giù, commedia e tragedia si fondono in uno stesso volto, solo non pensavo fosse proprio il tuo.
Quando vado in Sardegna per uno dei miei viaggi ti prendo una piccola maschera di cuoio artigianale, un amuleto, volevo fosse quello il senso ma magari invece era solo un altro chiodo piantato nel tuo costato. E sì che gli spettacoli migliori li ho visti con te, sul palco o insieme, ivi compreso quello show memorabile di rutti col tipo mascherato che ha fatto tremare il gazebo, ti ricordi? Com’è, smettere anche di avere ricordi?
Mi rendo conto che uno dei motivi per cui scrivo è questo, tutto passa e io sento il bisogno di fermarlo, marmorizzarlo su uno schermo, e poi quando ci torno è come aprire una scatola ed è tutto lì, suoni odori sensazioni. Com’è, smettere di sentire tutto, anche questo?
Quando sei andato al mare coi tuoi mi hai portato un sasso a forma di pinguino, ti somiglia, anche il fiore che ho preso al tuo funerale ti somiglia, lasci il segno di te dappertutto, in pochi possono farlo. Vorrei potere anche solo una volta metterci sul lettone a vedere un documentario sulle lontre che ti piacciono tanto, mi sa che anche questo l’ho assimilato da te, un altro uomo che ho amato dopo mi ha soprannominato Otter, Giuliotter nei momenti migliori.
Sono cosi tante le cose che mi evochi, e anche se la tua forma non la volevi più proiettata sui marciapiedi, si è incisa negli oggetti, nelle persone. Non credo che l’idea fosse essere dimenticato. Anche perché semplicemente, non è possibile.
Ciao Andrea.

venerdì 4 febbraio 2022

Cambiare

Mi guardo attorno e tutto è come l’ho sognato, anzi, meglio. I libri colorano gli spazi dove potrebbero acquattarsi le ombre, le piante succhiano luce e la riverberano sul pavimento in barbagli che mi fanno dire, questa non è la casa degli spiriti, è casa mia. Sono così abituata alla fantasia che la realtà mi prende alla sprovvista, è dura lasciare la vecchia pelle, diceva il pitone Kaa nelle storie di Mowgli. Perfino la paura può essere una scelta, se è familiare, e si può indossare il nero se veste meglio. 
Però sono stanca della paura, anche se mi ha tenuto per mano quando non c’era nient’altro e quindi grazie, paura. Ma ora apriamo le finestre, che entri la luce.