martedì 19 aprile 2022

Party

Like the Spanish city to me 
when we were kids
Dire Straits

 

È la notte dei fantasmi, fai attenzione, qualcuno nelle calles di Granada sta per lasciarci il cuore.

La festa è su più piani, primo calimocho e elettronica, secondo scambi di fluidi, terzo cocaina.

Le persone sono vomitate nelle strade, ingombre di ammassi che sembrano bolo, le sostanze girano come succhi gastrici. La serata inizia che è già quasi il giorno dopo, il botellon è la torcia del maratoneta nella notte chilometrica. Ci si perde, sono fatta, la tua mano unico gancio che mi tiene orientata, perno attorno a cui gira la mia testa sbronza. Al terzo piano non solo cocaina, dicono, si sentono nomi che sanno di giungla. Io sono vestita da Groucho, tu hai una ghirlanda fiorita in testa, direi che può andare. Saliamo, mi sale tutto.

Giù per le scale rovinano corpi, la musica è così alta che non so distinguere tra risa e urla. Il vino aranciato non mi interessa, le mie labbra sono già aspre abbastanza, si spaccano come zolle di terra arse, non riesco a chiuderle del tutto, è sempre così quando mi faccio. Passiamo davanti a uno specchio che restituisce l’immagine di un giardino, tu rosa, io veleno.

Al secondo piano trovo Viola, è vestita da pappagallo di pirata, si avvicina strepitando che è un costume di coppia ma non sa dove sia finito il suo Uncino. Io lo so, dov’è Uncino: piano tre.

Senza dovertelo dire mi sospingi verso l’alto, ci incastriamo alla perfezione solo quando non sono in me, sarà per questo che mi procuri sempre tu la droga. Ti amo, penso, poi me lo dimentico.

Al terzo piano c’è una festa indigena, Uncino stona tra le stoffe maculate e le teste pennute, la sua mano di ferro brilla nel buio come un presagio. Quando entri tu l’aria cambia colore, diventa soave e altissima, tutti si scostano perché i fiori sulla tua fronte sono buttafuori, buttafiori. Arrivo davanti a Uncino come per magia, invece sei tu che mi guidi. Uncino appena mi vede sorride e mi mostra tutti i suoi denti tristi: « Ayahuasca », dice.

Che bel nome Ayahuasca, se mi chiamassi così potremmo correre liberi nelle praterie o boschi o aiuole, sarei una dea dorata col capo sormontato di gemme e tu potresti specchiartici, sarei talmente importante che nessuno dotato di senno pronuncerebbe il mio nome invano, oppure andrebbe in deliquio, avrebbe visioni, s’innamorerebbe, t’innamoreresti anche tu. Sento la tua mano ancora intrecciata alla mia come un totem, mentre Uncino rovescia il capo all’indietro e inizia a rantolare.

Viola lo avvinghia, ha in bocca una canna screziata di cocaina, una zebra bianca e nera. Non l’abbiamo sentita arrivare, le pareti interne della mia bocca stanno crollando come la caverna del tesoro di Aladino. Uncino sta salmodiando, evoca mostri, sua madre fredda gelida e il biglietto del pullman in mano a quindici anni, sua sorella in clinica che non vede da quando, a Natale, suo padre ha rovesciato l’albero e poi se n’è andato, faceva caldo in modo innaturale, palme a dicembre, nemmeno il tempo può consolare se non si accorda allo stato d’animo, e poi sua nonna in una cassa e subito prima nelle fabbriche di jamon a insegnargli come salarlo, e poi Viola, Viola, pronunciando il suo nome talismanico si gira e la vede e rimane pietrificato dallo stupore. Li lasciamo così, lei che gli appoggia la canna tra le labbra dicendo non succede niente carinho, lui immobile che la fissa a occhi sbarrati, da qualche parte ho letto che Ayahuasca può uccidere attraverso la meraviglia, morte per stupore. Capitan Uncino statua di legno e il suo pappagallo invasato.

La tua mano mi porta al piano di sotto, ci sono delle stanze libere. Crollo su un letto e tu ti rovesci su di me come un fiume, ci spolpiamo fino a restare detriti, pelli appese tra le lenzuola. Il sonno è un coperchio implacabile sulle ciglia, nero e viola, ma non dura. Mi sveglio di colpo e cado dal letto, nuda.

Il pavimento è duro e freddo e io sono un mucchietto d’ossa. Non mi sono mai sentita così piccola. Sbircio in su, tu dormi senza vestiti, né freddo, né cuore. Mi alzo a sedere e le sostanze defluiscono da me di colpo, liquido amniotico al contrario, e mi sbagliavo, non mi sono mai sentita così piccola fino a ora, quando mi sollevo barcollando, ti copro col lenzuolo, infilo le mie cose e esco, nell’alba sporca e sobria, un piede davanti all’altro.