6:55, la notte già strizza
gli angoli degli occhi per aprirli al giorno che arriva, mi scrollo via il buio
dalle spalle e scendo in fretta le scale della metropolitana.
Mi sento come Pinocchio
nella pancia della balena, immersa in un plancton fatto di persone. Nessuno
parla a quest'ora, ci si sfiora con lo sguardo, molti leggono il Metro, le
ragazze sono tutte belle anche se hanno ancora la forma del cuscino sotto agli
occhi, gli uomini sembrano tutti tuo padre o il tuo professore del liceo, le
pelli sono di tutti i colori e si amalgamano alla perfezione come un dolce
fatto in casa.
Una coppia di ciechi
che vedo ogni mattina si avvicina alle panchine, si tengono per mano e con
l'altra spingono avanti il bastone bianco, io mi chiedo ogni volta se quando si
sono conosciuti ci vedevano oppure si sono innamorati al buio.
Un'altra coppia di
ragazzini si stringe, si tocca, lui le tiene il viso tra le mani con gesti
precisi, quel tipo di gesti che nessuno ti insegna, li conosci già. Lei non si
vergogna, ridono, sono gli unici che parlano e il loro portoghese ha il suono
della campanella di scuola.
Io aspetto di salire e
so già che troverò un paio di facce che vedo sempre, non ci conosciamo ma ci
vediamo ogni mattina, il treno ha sei vagoni eppure ci ritroviamo sempre nello
stesso, e se per caso capita che non ci incontriamo mi dispiace e arrivo al
lavoro più pesante.
Il treno è arrivato, quando
le porte si aprono chi esce si mescola a chi entra, qua non c'è l'ordine
nordico, è tutto un po' un casino, ma io mi sento al caldo e al sicuro.
Dopo un paio di fermate
si libera un posticino, mi lascio cadere a fianco di una signora angolana coi
capelli avvolti in uno scialle colorato e, anche se qui ho sempre la tentazione
di appoggiare la testa sulla spalla dei miei vicini, la lascio andare
all'indietro contro al vetro.
Chiudo gli occhi e
sogno in un'altra lingua.