Mia nonna ha
mani curate, sembrano morbide ma io in verità non lo so, perché non le posa mai su di me.
É un pomeriggio di autunno e la luce filtra densa tra le persiane, lei siede in
una poltrona verde coi braccioli che la fa stare dritta come una regina.
- Come stai,
nonna? - domando, mentre con gli occhi frugo tra le sue mani chiuse attorno a
qualcosa, mi ricordano delle conchiglie e quasi mi aspetto di trovarci dentro
una perla.
- Bene - dice,
anzi stride, la sua voce si va assottigliando sempre di più col tempo che
passa, è una metamorfosi che colpisce tutti gli anziani della casa di riposo, e
quando vengo a trovarla esco frastornata come se fossi stata allo zoo, o in una
voliera gigante.
- Che cos'hai in
mano? - chiedo dolcemente.
- Niente -
risponde, tirandosi subito le mani al petto e girando la testa dall'altra parte
tutta impettita, sembra un enorme Ara con le piume di flanella.
- Ma come,
niente? Dai, fammi vedere - insisto con un sorriso, ma la nonna si arrocca su
se stessa sempre di più e mi lancia un'occhiata diffidente, da uccello in
gabbia.
- É mio, non te
lo do - brontola sottovoce senza guardarmi, le mani strette addosso.
Mio malgrado,
scoppio a ridere. Quando ero piccola facevo scene simili con mia mamma, lei
cercava di convincermi a fare qualcosa ma io non volevo saperne e mi nascondevo
sotto al tavolo, dietro al letto, dentro ai suoi vestiti, una volta mi sono
infilata nel suo impermeabile appeso nella cabina armadio e ci sono rimasta un
sacco di tempo, finché la sua voce tenera che mi chiamava non è diventata uno
squillo di sirena, allora sono saltata fuori ridendo e l'ho trovata
accartocciata sul divano in preda all'angoscia, il telefono che le ballava
nelle mani tremanti, e mi sono spaventata tanto che sono scoppiata a piangere
ed è stata lei a dovermi consolare.
L'infermiera
entra nella stanza con il vassoio del pranzo. É robusta e spiccia, mi ricorda
la signora polacca che veniva da noi a stirare e che io bambina guardavo lavorare
di nascosto, la temevo molto più di mia madre.
- Ecco qua, signora
Iris - dice con gentilezza, appoggiando il vassoio sul tavolino di fianco
alla poltrona. Zuppa, purè con pollo lesso a pezzetti e una specie di
mattonella di mela cotogna. La nonna guarda il pasto con una smorfia e si gira
ostentatamente dall'altra parte.
- Forza signora,
dobbiamo mangiare - dice l'infermiera incoraggiante, lanciandomi uno sguardo
d'intesa. Io, non so perché, alzo gli occhi al cielo e scuoto la testa, con un'espressione solidale. Ricordo le occhiate tra i miei genitori quando non riuscivano
a gestirmi, potevo leggervi la loro esasperazione e mi faceva sentire ancora
più cattiva, avrei voluto urlare, rovesciare le preziose piante di mia madre e
spargere terra e foglie tutto intorno, come nella giungla.
La nonna
borbotta qualcosa, sempre dandoci le spalle, l'infermiera prova ad avvicinarsi
col cucchiaio di zuppa ma la nonna ha uno scatto, e col gomito appuntito
colpisce il braccio dell'infermiera, che rovescia tutto.
- Signora! -
esclama lei spazientita, molla il cucchiaio sul vassoio e marcia fuori,
immagino a prendere uno straccio. La nonna non fa una piega, e quando mi
avvicino a lei per rimproverarla scorgo un'espressione di trionfo che le
illumina tutto il viso. Provo il forte impulso di abbracciarla, la mia regina
di picche.
- Nonna, non è
carino fare così - dico invece, chinandomi per salvare il salvabile. Mentre me ne sto abbassata a radunare i pezzi di cibo, nella stanza entra un altro
ospite della casa di riposo. La nonna si riscuote e si raddrizza tutta,
sull'attenti. L'uomo avrà più o meno la sua età, si porta dietro una flebo a
cui si appoggia a mo' di bastone, ha capelli radi e un naso imponente che lo fa
assomigliare a un tucano.
- Ciao, Iris -
dice l'uomo, e la sua voce è profonda e cavernosa, scuote la calma della
stanza.
La nonna non
risponde e rimane con le mani in grembo, stringendo gelosamente il loro
contenuto. L'uomo si avvicina a fatica, sostenendosi con la flebo, arriva
dietro alla nonna che non si volta, continuando a covare il suo tesoro.
Rimangono lì fermi, lui vecchio colosso appeso a un filo, lei pappagallo grigio
con gli occhi pieni di voli. Poi, lui allunga una mano verso di lei.
A questo punto
sono interdetta, forse dovrei intervenire, ma per qualche motivo non faccio
niente.
Guardo l'uomo
sfiorare i pochi capelli della nonna, allungarsi verso le sue mani serrate e
con delicatezza infilarci dentro qualcosa. Nel ritrarsi, le sfiora di nuovo i
capelli, questa volta con più intenzione. La nonna finalmente schiude le sue
mani conchiglie.
Tra le dita di
nonna Iris brillano due biglie di vetro, occhi spalancati nel buio che avanza.
- Per giocare -
dice l'uomo, non so se a me o a lei, poi lentamente si gira e se ne va,
trascinandosi dietro al suo vessillo. Quando è già uscito, sento la nonna dire
a bassa voce: - Bruno -.
Le prendo le
mani con delicatezza e lei me lo lascia fare, penso al nonno Bruno e ai giochi
scatenati che facevamo prima dell'enfisema che se l'è preso, lasciando Iris
a invecchiare con grazia nella loro bella casa, piena di noi nipoti sempre più
grandi. Una volta, quando ancora viveva lì, la nonna mi aveva detto: -
Invecchiare è come tornare bambini -, e io non avevo saputo cosa risponderle.
Le biglie sono
calde nelle nostre mani, io la guardo e le dico: - Nonna, giochiamo -.