È la notte dei fantasmi, fai attenzione, qualcuno nelle calles
di Granada sta per lasciarci il cuore.
La festa è su più piani, primo calimocho e
elettronica, secondo scambi di fluidi, terzo cocaina.
Le persone sono vomitate nelle strade, ingombre di ammassi
che sembrano bolo, le sostanze girano come succhi gastrici. La serata inizia
che è già quasi il giorno dopo, il botellon è la torcia del maratoneta
nella notte chilometrica. Ci si perde, sono fatta, la tua mano unico gancio che
mi tiene orientata, perno attorno a cui gira la mia testa sbronza. Al terzo
piano non solo cocaina, dicono, si sentono nomi che sanno di giungla. Io sono
vestita da Groucho, tu hai una ghirlanda fiorita in testa, direi che può
andare. Saliamo, mi sale tutto.
Giù per le scale rovinano corpi, la musica è così alta che
non so distinguere tra risa e urla. Il vino aranciato non mi interessa, le mie
labbra sono già aspre abbastanza, si spaccano come zolle di terra arse, non
riesco a chiuderle del tutto, è sempre così quando mi faccio. Passiamo davanti
a uno specchio che restituisce l’immagine di un giardino, tu rosa, io veleno.
Al secondo piano trovo Viola, è vestita da pappagallo di
pirata, si avvicina strepitando che è un costume di coppia ma non sa dove sia
finito il suo Uncino. Io lo so, dov’è Uncino: piano tre.
Senza dovertelo dire mi sospingi verso l’alto, ci incastriamo
alla perfezione solo quando non sono in me, sarà per questo che mi procuri
sempre tu la droga. Ti amo, penso, poi me lo dimentico.
Al terzo piano c’è una festa indigena, Uncino stona tra le
stoffe maculate e le teste pennute, la sua mano di ferro brilla nel buio come
un presagio. Quando entri tu l’aria cambia colore, diventa soave e altissima,
tutti si scostano perché i fiori sulla tua fronte sono buttafuori, buttafiori. Arrivo
davanti a Uncino come per magia, invece sei tu che mi guidi. Uncino appena mi
vede sorride e mi mostra tutti i suoi denti tristi: « Ayahuasca », dice.
Che bel nome Ayahuasca, se mi chiamassi così potremmo correre
liberi nelle praterie o boschi o aiuole, sarei una dea dorata col capo
sormontato di gemme e tu potresti specchiartici, sarei talmente importante che
nessuno dotato di senno pronuncerebbe il mio nome invano, oppure andrebbe in
deliquio, avrebbe visioni, s’innamorerebbe, t’innamoreresti anche tu. Sento la
tua mano ancora intrecciata alla mia come un totem, mentre Uncino rovescia il
capo all’indietro e inizia a rantolare.
Viola lo avvinghia, ha in bocca una canna screziata di
cocaina, una zebra bianca e nera. Non l’abbiamo sentita arrivare, le pareti
interne della mia bocca stanno crollando come la caverna del tesoro di Aladino.
Uncino sta salmodiando, evoca mostri, sua madre fredda gelida e il biglietto
del pullman in mano a quindici anni, sua sorella in clinica che non vede da
quando, a Natale, suo padre ha rovesciato l’albero e poi se n’è andato, faceva
caldo in modo innaturale, palme a dicembre, nemmeno il tempo può consolare se
non si accorda allo stato d’animo, e poi sua nonna in una cassa e subito prima
nelle fabbriche di jamon a insegnargli come salarlo, e poi Viola, Viola,
pronunciando il suo nome talismanico si gira e la vede e rimane pietrificato
dallo stupore. Li lasciamo così, lei che gli appoggia la canna tra le labbra
dicendo non succede niente carinho, lui immobile che la fissa a occhi
sbarrati, da qualche parte ho letto che Ayahuasca può uccidere attraverso la
meraviglia, morte per stupore. Capitan Uncino statua di legno e il suo
pappagallo invasato.
La tua mano mi porta al piano di sotto, ci sono delle stanze
libere. Crollo su un letto e tu ti rovesci su di me come un fiume, ci spolpiamo
fino a restare detriti, pelli appese tra le lenzuola. Il sonno è un coperchio
implacabile sulle ciglia, nero e viola, ma non dura. Mi sveglio di colpo e cado
dal letto, nuda.
Il pavimento è duro e freddo e io sono un mucchietto d’ossa.
Non mi sono mai sentita così piccola. Sbircio in su, tu dormi senza vestiti, né
freddo, né cuore. Mi alzo a sedere e le sostanze defluiscono da me di colpo,
liquido amniotico al contrario, e mi sbagliavo, non mi sono mai sentita così
piccola fino a ora, quando mi sollevo barcollando, ti copro col lenzuolo,
infilo le mie cose e esco, nell’alba sporca e sobria, un piede davanti
all’altro.