Quando avevo dieci anni e andavo
in montagna, il recinto di legno mi carezzava la pancina, ruvido e solido, mi
si opponeva come un ostacolo amico, fermo e sicuro. Oltre a lui i monti, le
alpi viola e odore di resina e muschio e miele e prati color di ginocchio
sbucciato. Lo strapiombo alpino non mi spaventava, perché c'era il recinto di
legno scuro che mi sosteneva, rendeva le grida di mia madre solo un'altra
melodia alpina. E l'occhio della montagna era sempre azzurro, grazie a quel
marrone ruvido scuro.
La città lava via i colori, li
rende opachi, banali, come un invisibile strato di cipria steso dalla mano
pesante di una truccatrice.
- Cosa c'è in tv stasera? -, la
melodia cittadina ha lo stesso suono di un tasto premuto. Un'intera tastiera
scaricata nelle orecchie, senza richiesta. Non ci sono recinti, ma spazi che
portano in altri spazi e altri spazi e altri spazi.
- Ma che ore sono, le sei e mezza?
-, - Da me c'è un silenzio... -, - Devo andare adesso -.
Tasti che picchiettano, voci non
melodiche, solitudine. Sale da aspetto.
Non c'è solitudine più grande di
quando ci si guarda in uno specchio, diceva sempre mia madre, e io non capivo.
Il pavimento è grigio, due file di
poltroncine dimesse ma dignitose si fronteggiano, intervallate da porte chiuse,
e a sinistra c'è il banco dell'accettazione. Rispettare la distanza di
sicurezza.
Le poltroncine vicino alla mia
sono parzialmente occupate e non posso fare a meno di sbirciare le facce di chi
le occupa. Parto prevenuto, scruto le figure come se già mi aspettassi di
trovarci qualcosa di strano. Alla mia destra, ma saltando un posto, c'è un uomo
di mezza età dal viso stanco e l'occhio immobile, fisso, pochi capelli e una
forte pinguetudine che si nota quando si alza alla chiamata dell'infermiera.
- Vieni, Bruno -, lo chiamano per
nome, sarà un'abitué. E io? Lo so, sto facendo la cosa giusta, sono più forte a
starmene seduto qui che a girare tre volte il mondo a piedi. Però...
Di fronte a me un ragazzo, vestito
come me, si guarda attorno tranquillamente e io sospiro tra me e me: ecco una
persona che sembra normale, come me, eppure è qui. Allora forse... Ah no, lo
chiamano, è un tirocinante. Ecco.
- Scusi -, sento una voce alla mia
sinistra, accompagnata da una mano che timidamente ma con sicurezza mi tocca il
braccio. La proprietaria della mano è una signora sui cinquanta, occhi marroni,
pelle polverosa che sembra avere tanti strati. Ha uno sguardo buono e inerme,
con una piccolissima luce di allarme in fondo agli occhi.
- Sa che lei... Posso darti del
tu? Assomigli tanto a mio figlio - mi dice la signora, sempre pacata ma sicura e mi guarda.
- Davvero? - dico, confuso - E...
Come si chiama? -
- Giovanni - dice la signora, e
sorride. Si sporge di nuovo verso di me, apre la bocca, poi si riscuote e la
richiude. Si appoggia allo schienale e si rimette composta, lanciandomi un
ultimo sorriso, piccolo e salterino come un passero. Arriva l’infermiera, io
sono così confuso e preso dai miei pensieri che non la sento pronunciare il mio
nome.
- Giovanni- mi sussurra la voce
della signora, bassa e calda, come una tazza di tè - Tocca a te -.
La guardo che mi osserva
mitemente, mi alzo.
Seguo l’infermiera e non sono più
solo.
Dalla raccolta immaginaria Altri racconti
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