Entriamo nell'hammam che è quasi sera, abbiamo poco
tempo perché alle sette è il turno degli uomini e bisogna lasciargli il posto.
Le donne berbere all'ingresso scompariranno assieme agli stracci, al sapone che
sembra caramello e ai loro occhi impossibili e verranno sostituite da nerboruti
custodi che praticano altrettanto nerboruti massaggi, rigorosamente unisex.
Escono le donne ed entrano gli uomini, difficile vederli contemporaneamente
qui.
La signora che sta
all'ingresso dell'hammam dimostra
ottant'anni ma probabilmente è più giovane di mia madre, ha un viso duro che
contrasta con la morbidezza del vestito e le sue parole schizzano come mine, né
merci né choukran servono a fermarle. Quando vede la fotocamera del mio
cellulare si infuria, le fotografie rubano l'anima, dicono, e io non vorrei mai
rubarle niente, sono mortificata ma non ci sono parole che possano avvicinarci.
Ce ne andiamo piuttosto
di fretta e infreddolite, niente prese di corrente e quindi niente
asciugacapelli e il vapore delle stanze non rimane sulla pelle, che però è
liscia e levigata come le stoffe di qui. Ci inoltriamo nel souk che brulica di gente, ovviamente uomini che vendono qualsiasi
cosa e anche qualche venditrice donna. Sono molto poche: vendono olio di argan, cibo,
e qualcuna, rarissima, sta dietro al bancone di un bar o di una bottega, velo
sempre e comunque. Hanno con sé i bambini o gli strumenti del lavoro, non si
vede qui una donna in pubblico senza qualcosa accanto a sé. Gli uomini invece
sono sempre fuori, al mercato, da soli o in compagnia, impegnati o
nullafacenti, spesso a mani vuote. Giriamo l'angolo e appare una signora
anziana, curva sotto un carico di fascine, che sale la strada pianissimo ma
senza arrestarsi. Nessuno l'aiuta.
Ci fermiamo in un
villaggio più piccolo, in quella che sembra la piazza centrale dove si trova un
bar con l'insegna della Coca Cola (in arabo) che pullula di uomini in djellaba. Anche qui, manco a dirlo,
nemmeno una donna, e io sono indecisa se togliermi la camicia o meno data
l'escursione termica di mezzogiorno. Sono una turista, quindi tutto bene, ma è
strano starmene seduta a bere, fumare e mangiare con le braccia nude che si
scaldano al sole, i tatuaggi e la mia maglietta dei Ramones e sapere di essere
l'unica donna presente a farlo. Nessun uomo dice mai niente, ma mi piacerebbe
parlare con un'altra donna, anche solo per non capirsi e ricevere occhiate che
hanno una voce, che squarciano la povertà delle parole.
L'ultima sera andiamo
in un bar moderno, nella Marrakech francese fatta di grandi boulevard e licenze
per la vendita di alcolici. Ci fanno entrare nonostante il nostro abbigliamento
trekking-straccione, perché siamo occidentali, e ci scortano in una sala col
DJ, musica altissima e tavoli rotondi con servizio cocktail e shisha (narghilè). Qui ci sono varie
ragazze marocchine, senza velo, bellissime e vestite molto meglio di me che
ballano, bevono, fumano il narghilè. Mi sembra di essere in un flashback del
mio Erasmus, gente internazionale e locale che fa festa. Tutti conoscono il francese,
mi basterebbe alzarmi e andare a parlare, ma per qualche motivo non lo faccio.
Ci sono silenzi
assordanti, che spiccano di più nei luoghi pieni di colori e profumi e dove tutto
è disegnato e intarsiato senza mai uno spazio vuoto, come i prodigiosi
motivi arabi che decorano gli edifici più importanti. Per me, qui, è stato il
silenzio degli occhi della donna berbera, occhi che non si fanno rubare, né
dimenticare.
Marrakech, palazzo El Bahia, dicembre 2016 |
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