Una storia in cui passi
più tempo a mancarti che a stare assieme non è una storia. É un racconto a
singhiozzo, fatto di punteggiatura, con qualche paragrafo qua e là, solo. É
l'insieme delle boccate d'aria del nuotatore mentre fa una vasca. Il tempo assume
proporzioni inedite, si dilata e sfilaccia e annacqua come se
piovesse sempre, secchi e secchi di acqua di risciacquo. Il martedì potrebbe
essere giovedì o venerdì, non importa, sono tutti giorni ugualmente lontani
dalle vacanze di Natale, dal prossimo ponte, dall'aereo che arriva. Oggi è martedì,
c'è yoga. Un'ora per me, come se ce ne fossero altre non per me, ma per noi, in
cui non sono sola, ma non importa.
Arrivo puntuale, mi
piace avere il tempo di srotolare il tappetino sul pavimento e allinearlo con
precisione alla parete, di fronte allo specchio, e mi piace prendere sempre lo
stesso posto, in fondo alla sala, vicino alla maestra ma non troppo alle altre
allieve. Mi piace il contatto della stoffa dei calzini sulla plastica morbida e
zigrinata del tappetino rosa, io odio il rosa ma se i colori avessero una
consistenza il rosa sarebbe questa, soffice ma densa, con l'impronta dei piedi
che rimane impressa per un attimo e poi se ne va, dolcemente. Le sette meno
tre, ancora pochi minuti prima che inizi la lezione, prima dell'essenza di
lavanda spruzzata nell'aria di fronte a noi allieve in piedi, erette come
giunchi, chi più dritta chi meno, tutte con le mani giunte di fronte al petto
in segno di pace, come se quel gesto potesse rallentare il tumulto che si trova
qualche fibra di tessuto e carne e ossa sotto, nel cuore che palpita rosso come
una lanterna cinese, come nel film dell'extraterrestre tradito da quel tamburo
martellante e visibile come un neon che porta gli uomini da lui per farne una cavia
da sezionare. Respiriamo. La lezione inizia, ci facciamo guidare. Sento il mio
respiro caldo che passa attraverso le narici ed esce vibrando e subito
ridiventa fresco quando inspiro, mi sento calma ma inspiegabilmente man mano
che vado avanti inizia a venirmi da piangere, sempre di più sempre di più come
una fontana che trabocca, prima quasi impercettibilmente la superficie
dell'acqua tremola perché ha raggiunto la massima capienza, poi a malapena
visibile un filo d'acqua lambisce le pareti di pietra della fontana come bava
di lumaca e infine piano ma inesorabilmente l'acqua scorre ai lati, limpida, lenta
ma costante. Non posso mettermi a piangere a lezione di yoga ovviamente quindi
mi trattengo, stringo i denti e ingoio il groppo alla gola ma sento che ho gli
occhi lucidi, il cuore non si vede ma gli occhi sì, anche se non vuoi, per
fortuna siamo in penombra ma avverto chiaramente una sorta di patina sulle
pupille e le lacrime spingere sotto con dolce prepotenza come bambini, e mi
trovo a pensare, ma come saranno le lacrime al buio, per fortuna ora arriva la
parte della lezione distesi, magari mi passa. Ci distendiamo supine sul
tappetino, il rosa assorbe le curve del mio corpo e le ammorbidisce, sprofondo
un po' ma resto compatta mentre la maestra con la sua voce dolce passa da
ciascuna allieva per aggiustare la postura e spalmare un po' di olio essenziale
sui polsi. Respiro aspettandola, lottando contro l'acqua che vorrebbe
traboccare dalla fontana semplicemente perché è troppo piena, è la sua natura
uscire quando dentro non c'è più spazio, e mentre la maestra si avvicina sento
qualcosa, come un moto di immensa, inequivocabile unione con tutte le cose che
traboccano e piangono e con tutte le cose sole del mondo e quando lei arriva da
me e si inginocchia con grazia io sono tutta tesa e allo stesso tempo
completamente morbida, come se avessi preso la forma del mondo sul quale sono
distesa, arresa, ed è allora che lei mi tocca, mi allinea le braccia e mi sistema
le spalle per farle aderire meglio al terreno con una delicatezza, una cura, che
non saprei in che altro modo definire se non amore, perché lei è lì e non
altrove e si cura delle mie braccia stanche e delle mie spalle in disordine e
mi tocca, c'è, e sono così commossa da quel tocco che non posso più tenermi e
lascio che l'acqua scorra in due fili sottili e caldi sulle guance che
bruciano, nella penombra, distesa, senza emettere un suono, grata a quella
sconosciuta che si cura di me, lì, sola, distesa su un pezzo di mondo.
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