So parlare solo
di radici, dicono.
Se risalgo la
radice trovo un albero: il ramo di mia madre è pieno di lentiggini. É un legno
nodoso costellato di nei, chiazze più o meno grandi e ombreggiature. Non c'è
nulla di omogeneo. Mia nonna avrebbe voluto sfrondarlo, quel ramo, piallarlo,
ignara che in fondo ai suoi occhi di legno marrone ci sono le stesse, minuscole
macchie.
Il ramo di mio
padre è un melo, robusto e tenace, non si piega durante le tempeste, che in
verità arrivano poco. É mite il clima qui, e forse proprio per non risvegliare
il bosco si usa parlare poco e solo del tempo, della vendemmia e delle fiere.
Ma un albero che cade, anche nel silenzio, lascia il vuoto.
Quando arriva la
primavera le gemme esplodono in semi che si spargono intorno. Cercano saltando di
spingersi lontano, ma atterrano all'ombra dei rami, bimbi nudi. Bevono parole
che cadono dall'alto, dimenticano l'abbraccio della corteccia in inverno, si
allungano nel cielo grande. Qualche ramo nasce sbucciato, di notte prende
freddo e se si posa un animale rabbrividisce e lo fa andare via. Qualche ramo
si torce verso il sole, imprimendo nel legno rughe di ostinazione. Qualche ramo
è un abbozzo, scorza dura e linfa calda, non prende forma e mai lo farà.
Poi d'estate si
aprono le foglie, verdi senza vergogna. Toccando le venature sento nei sottopelle,
urlate della domenica, la consistenza del vapore di pastasciutta, ore sole in
camera. E ancora mani, libri, voci, mi tocco la faccia e sento legna.
In autunno
diventeremo cataste, in inverno ci scalderemo bruciando. Io mi allungo, e sento
le gemme sotto alle mani.