Cammino rapida, quasi a
scatti, ogni svolta è un’idea, ogni incrocio un pensiero fisso che si sbroglia.
Le vie si dipanano come vene del braccio, il tuo, pulsano in maniera
preoccupante, avrei anche potuto accorgermene. Quella che sto attraversando
adesso è affiancata da un filare di alberi, ma le foglie sono stanche, come masticate
dalla luce bieca della luna. In fondo alla strada si intravede una piccola
chiesa, ce n’è una per ogni freguesia, anche se della toponomastica di
Lisbona quello che più mi colpisce è la quantità di centri commerciali,
praticamente uno ad ogni fermata della metro. Per arrivare all’ingresso del
capolinea ne ho ancora, di strada, sempre sperando di riuscire a prendere l’ultima
corsa, e sennò fodes tudo. Non sono uscita abbastanza in fretta
da casa tua.
La cosa buffa è che, all’inizio, in quel condominio di Portela ci abitavo io, al piano inferiore, insieme a una ragazza spagnola che non ho mai visto e una estone convertita, il cui viso bianchissimo faceva tutt’uno col velo che non toglieva mai. Quando è stato altrettanto chiaro che portare alcol e uomini in casa avrebbe creato problemi me ne sono andata, ricordo che voltandomi dalla strada l’ho scorta dietro il vetro che mi guardava, anche se di solito evitava le finestre per non essere vista da qualche uomo all’esterno. Da quando sono tornata nel condominio perché al piano sopra ci abiti tu, non l’ho mai incontrata. Chissà se vive ancora lì, se ci ha mai sentiti urlare e se sì, dove ha collocato le grida nel suo universo di pensiero.
È un quartiere tranquillo, residenziale. Manco a dirlo c’è un piccolo centro commerciale - dovrei ritrovarmelo sulla destra tra poco -, un campo sportivo, il Pingo Doce. Nel negozio di animali ho preso due pesci rossi, siamo io e te, è stata un’impresa trasportarli di nascosto a casa tua, in combutta con i coinquilini. Probabilmente ora finiranno a nuotare nelle tubature del water, forse felici.
La tua rabbia è questo selciato che vuole essere calpestato senza cambiare strada, pietre portoghesi inscalfibili, inamovibili. Non c’è terreno erboso fino alla fermata, devo attraversare sassi e cemento come stanze della mente, porte ermetiche sulla torcia del cuore. Quando ti infuri perdi l’orientamento, sei una città di notte senza indicazioni.
Una volta ha chiamato tuo padre, ne intuivo la faccia sformata dallo schermo del telefono, la sua risata sapendo che ero lì con te sembrava un canto di upupe. Doveva essere molto fiero, dovevi essere molto fiero. Tra fiero e furia cambiano poche lettere, e la rabbia si trasmette col sangue se non si accende la luce al momento giusto. Mi ha cresciuto la TV, racconti, visualizzo uno schermo luminescente proiettato nella pellicola nera di occhi bambini.
Ora mi ritrovo al limitare del campo sportivo che confina con un grande parco, circondato da una rete. Il verde dell’erba è un’ombra scura estroflessa sul marciapiede, il campo sembra non finire mai. Mezzanotte meno cinque, la metro sta per partire. Accelero il passo, costeggio la rete. Ad un certo punto, una sagoma si staglia.
Forse è la suggestione di tutti i film e libri con protagoniste femminili che scappano di notte, forse è un esercizio che tutte facciamo, cosa succede se adesso vengo aggredita, sarò forte, urlerò, farò come la ragazza in quel racconto di Wallace che si salva dalla morte con parole d’amore per il suo stupratore. Se fossi tu ad assalirmi ti direi va tutto bene, non è colpa tua, però lasciami amore mio, dobbiamo lasciarci, chissà se ti calmeresti o al contrario ti gonfieresti ancora di più, bestia, bambino ferito, cammino forte fortissimo ora per superare l’ombra chiara che incombe, un flash abbagliante dal passato.
Anche il bianco della tua sclera risalta particolarmente quando ti agiti, sei incapace di contenerti come di perdonarti, da piccolo risultavi sempre primo nei test attitudinali e allora perché andavi male a scuola, nessuno capisce niente mi ripeti stringendo una canna immaginaria che non fumi più perché ti ha quasi ucciso, una piccola canna, forse la furia serve a riempire gli spazi vuoti della tua sagoma d’uomo. Penso alle sagome disegnate a terra sulle scene del crimine, mentre supero la rete e affronto l’ignoto.
Oltre le maglie della rete, un cavallo bianco mi osserva, fermo immobile nel cuore della notte. Sento la metro che parte sferragliando sotto di noi.
La cosa buffa è che, all’inizio, in quel condominio di Portela ci abitavo io, al piano inferiore, insieme a una ragazza spagnola che non ho mai visto e una estone convertita, il cui viso bianchissimo faceva tutt’uno col velo che non toglieva mai. Quando è stato altrettanto chiaro che portare alcol e uomini in casa avrebbe creato problemi me ne sono andata, ricordo che voltandomi dalla strada l’ho scorta dietro il vetro che mi guardava, anche se di solito evitava le finestre per non essere vista da qualche uomo all’esterno. Da quando sono tornata nel condominio perché al piano sopra ci abiti tu, non l’ho mai incontrata. Chissà se vive ancora lì, se ci ha mai sentiti urlare e se sì, dove ha collocato le grida nel suo universo di pensiero.
È un quartiere tranquillo, residenziale. Manco a dirlo c’è un piccolo centro commerciale - dovrei ritrovarmelo sulla destra tra poco -, un campo sportivo, il Pingo Doce. Nel negozio di animali ho preso due pesci rossi, siamo io e te, è stata un’impresa trasportarli di nascosto a casa tua, in combutta con i coinquilini. Probabilmente ora finiranno a nuotare nelle tubature del water, forse felici.
La tua rabbia è questo selciato che vuole essere calpestato senza cambiare strada, pietre portoghesi inscalfibili, inamovibili. Non c’è terreno erboso fino alla fermata, devo attraversare sassi e cemento come stanze della mente, porte ermetiche sulla torcia del cuore. Quando ti infuri perdi l’orientamento, sei una città di notte senza indicazioni.
Una volta ha chiamato tuo padre, ne intuivo la faccia sformata dallo schermo del telefono, la sua risata sapendo che ero lì con te sembrava un canto di upupe. Doveva essere molto fiero, dovevi essere molto fiero. Tra fiero e furia cambiano poche lettere, e la rabbia si trasmette col sangue se non si accende la luce al momento giusto. Mi ha cresciuto la TV, racconti, visualizzo uno schermo luminescente proiettato nella pellicola nera di occhi bambini.
Ora mi ritrovo al limitare del campo sportivo che confina con un grande parco, circondato da una rete. Il verde dell’erba è un’ombra scura estroflessa sul marciapiede, il campo sembra non finire mai. Mezzanotte meno cinque, la metro sta per partire. Accelero il passo, costeggio la rete. Ad un certo punto, una sagoma si staglia.
Forse è la suggestione di tutti i film e libri con protagoniste femminili che scappano di notte, forse è un esercizio che tutte facciamo, cosa succede se adesso vengo aggredita, sarò forte, urlerò, farò come la ragazza in quel racconto di Wallace che si salva dalla morte con parole d’amore per il suo stupratore. Se fossi tu ad assalirmi ti direi va tutto bene, non è colpa tua, però lasciami amore mio, dobbiamo lasciarci, chissà se ti calmeresti o al contrario ti gonfieresti ancora di più, bestia, bambino ferito, cammino forte fortissimo ora per superare l’ombra chiara che incombe, un flash abbagliante dal passato.
Anche il bianco della tua sclera risalta particolarmente quando ti agiti, sei incapace di contenerti come di perdonarti, da piccolo risultavi sempre primo nei test attitudinali e allora perché andavi male a scuola, nessuno capisce niente mi ripeti stringendo una canna immaginaria che non fumi più perché ti ha quasi ucciso, una piccola canna, forse la furia serve a riempire gli spazi vuoti della tua sagoma d’uomo. Penso alle sagome disegnate a terra sulle scene del crimine, mentre supero la rete e affronto l’ignoto.
Oltre le maglie della rete, un cavallo bianco mi osserva, fermo immobile nel cuore della notte. Sento la metro che parte sferragliando sotto di noi.
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