Ci sono posti fatti apposta per partire e tornare. Posti che scivolano, non stanno fermi, non si radicano, scorrono. Ti ci puoi specchiare dentro e sentirti meno solo.
Così pensavo camminando per le calli colorate. Colori chiari, in verità, come di pastello. Venezia a fine agosto è così, calda e umida e scolorita, come un acquerello stinto. O forse è la gente che la scolora, banchi di persone in correnti opposte che si sfiorano nel passaggio come delle gocce e resta solo questo grande mare dai colori indistinti.
Così pensavo, bestemmiando tra i denti contro il distributore di sigarette a Fondamenta Nuove, che inghiottiva e risputava la mia tessera sanitaria con insolenza. Inutile, non la prendeva, e dietro di me si stava formando un crocicchio variegato di persone col mio stesso bisogno.
«Lascia stare, faccio io» interviene una voce dall’accento indiano alle mie spalle, mentre io sferravo un inutile pugno alla macchina - certe volte vuoi solo fumare, punto.
Un braccio deciso si interpone tra me e il distributore, alla sua estremità una faccia sbrigativa ma gentile color ambra scura. Il ragazzo indiano inserisce con destrezza la sua, di tessera, e il distributore puntualmente la risputa.
«I to morti» mormora l’indiano sottovoce, continuando ad armeggiare con la macchina. Infila la tessera e quella esce di nuovo. Lui sospira, la rimette, viene riespulsa, si blocca, la rimette, entra.
«Oh» esclama sollevato «Cosa prendi tu?» mi fa, selezionando le sue sigarette.
«Camel» rispondo come sovrappensiero. In sette secondi mi ritrovo con sigarette, monete e tessera in mano.
«Certe volte ghe voe propio» mi dice l’indiano, sparendo rapidamente tra la gente, verso il barchino.
E dopo un attimo mi ritrovavo di nuovo sui ponti, tra le persone-pesci-gocce, con le mani piene di cose.
Le città d’acqua si muovono, non puoi fermarle. Sono bagnate, non puoi tenerle in mano. Però se parti e torni, sei delle loro. Se per caso ti viene da piangere, un po’d’acqua in più non fa niente.
Così pensavo, mentre i miei piedi mi avevano portato di nuovo a piazzale Roma, che quando lo vedi uscendo dalla stazione ti colpisce nel petto, al centro, dove ci sono le cose più importanti.
Il ragazzo indiano mi aveva lasciato tutto il resto, potevo prendermi il biglietto, un altro. Per partire e tornare.
Venezia non è mia, perché è di tutti quelli che partono e tornano. E, a volte, piangono.
Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi
Venezia, agosto 2011 |
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