sabato 3 maggio 2014

Nöel à Paris


A te ho dato le cose mie più belle.

Alda Merini
                               

I campi elisi sotto Natale non sono qualcosa che si può prendere sottogamba. Luci sfavillanti a destra e a sinistra puntate come riflettori, odori e sapori e vapori, fiumana di persone, guance ghiacce al punto giusto da percepire le punture di luci e voci e la sensazione di entrare all’opera, con musiche trionfali e tutti che applaudono. Camminare è dura, quello che puoi fare è sgusciare tra le persone abbandonandoti al flusso, un po’ come a un concerto reggae. Se sei fortunato il fiume umano ti traghetta verso i banchetti natalizi che presentano l’offerta gastronomica dell’intero pianeta e magari riesci a trovare proprio quello che ti stuzzica di più. Nel mio caso, una madeleine. Riesco ad agguantarla sporgendo il braccio dai cappotti altrui e felice mi lascio trascinare in trionfo dalla folla che avanza verso la Tour, che è agghindata come la regina della festa, alta e altera e lucente e spettacolare.
Mentre affondo i denti in quel morbido zucchero all’uovo, mi vengono in mente due cose: Château Rouge e il vecchio Proust.
Château Rouge è il quartiere nero che si trova subito sotto Montmartre, non a caso nel gradino più basso rispetto alla collina degli artisti: Parigi è simbolica come nessun’altra città al mondo. Mi chiedo cosa stiano facendo gli avventori dell’ostello-garage di Château Rouge nel quale ho passato la notte: i due ragazzi copulatori che hanno cullato il mio letto a castello e la banda di erasmi allegri dalla parlata del nord. E anche gli abitanti del quartiere, marchiati a fuoco nella mia testa: le parrucchiere specializzate in treccine e pettinature africane, il contorsionista o forse disabile che cammina sulle mani e ti guarda attraverso le gambe, gesto che spaventa tutti gli animali feroci e li fa desistere dall’attaccarti. Magari sono qui, mescolati alla folla. Magari, ma credo proprio di no. Parigi è una regina.
Proust è uno scrittore geniale e infelice, maniacale e simbolico quanto Parigi. Ho letto che per lui esiste un modo per vincere il passare del tempo, quando il suo protagonista mangia una madeleine e gli viene in mente la sua infanzia e rivive il ricordo nel sapore. Io, mangiando una madeleine, penso a Proust, alla sua madeleine e al tempo: il suo, il mio e il tuo. Sarebbe bello, penso, fissare il tempo nell’impasto di un dolce. Tempo felice o infelice, non importa. Impastarlo, lasciarlo lievitare e cuocere e poi dartelo, ancora caldo di forno. Ché se me lo tengo io, non serve a niente.
Sospiro, emettendo una nuvola di vapore zuccherata all’uovo. È ora di tornare all’ostello, intercettare le mie compagne di viaggio e scendere di nuovo giù in basso.
Château Rouge e Proust e Parigi insieme, troppo forse per un impasto solo.
Però vorrei lo stesso impastarlo e darlo a te.

Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi

Parigi, dicembre 2009

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