A te ho dato le cose mie più belle.
Alda Merini
I campi elisi sotto Natale non sono qualcosa che si può prendere
sottogamba. Luci sfavillanti a destra e a sinistra puntate come riflettori,
odori e sapori e vapori, fiumana di persone, guance ghiacce al punto giusto da
percepire le punture di luci e voci e la sensazione di entrare all’opera, con
musiche trionfali e tutti che applaudono. Camminare è dura, quello che puoi
fare è sgusciare tra le persone abbandonandoti al flusso, un po’ come a un
concerto reggae. Se sei fortunato il fiume umano ti traghetta verso i banchetti
natalizi che presentano l’offerta gastronomica dell’intero pianeta e magari
riesci a trovare proprio quello che ti stuzzica di più. Nel mio caso, una madeleine. Riesco ad agguantarla sporgendo
il braccio dai cappotti altrui e felice mi lascio trascinare in trionfo dalla
folla che avanza verso la Tour, che è
agghindata come la regina della festa, alta e altera e lucente e spettacolare.
Mentre affondo i denti in quel morbido zucchero all’uovo, mi vengono in
mente due cose: Château Rouge e il vecchio Proust.
Château Rouge è il
quartiere nero che si trova subito sotto Montmartre, non a caso nel gradino più
basso rispetto alla collina degli artisti: Parigi è simbolica come nessun’altra
città al mondo. Mi chiedo cosa stiano facendo gli avventori dell’ostello-garage
di Château Rouge nel quale ho passato la notte: i due ragazzi
copulatori che hanno cullato il mio letto a castello e la banda di erasmi
allegri dalla parlata del nord. E anche gli abitanti del quartiere, marchiati a
fuoco nella mia testa: le parrucchiere specializzate in treccine e pettinature
africane, il contorsionista o forse disabile che cammina sulle mani e ti guarda
attraverso le gambe, gesto che spaventa tutti gli animali feroci e li fa
desistere dall’attaccarti. Magari sono qui, mescolati alla folla. Magari, ma credo
proprio di no. Parigi è una regina.
Proust è uno scrittore geniale e infelice, maniacale e simbolico quanto
Parigi. Ho letto che per lui esiste un modo per vincere il passare del tempo, quando
il suo protagonista mangia una madeleine
e gli viene in mente la sua infanzia e rivive il ricordo nel sapore. Io,
mangiando una madeleine, penso a
Proust, alla sua madeleine e al tempo:
il suo, il mio e il tuo. Sarebbe bello, penso, fissare il tempo nell’impasto di
un dolce. Tempo felice o infelice, non importa. Impastarlo, lasciarlo lievitare
e cuocere e poi dartelo, ancora caldo di forno. Ché se me lo tengo io, non
serve a niente.
Sospiro, emettendo una nuvola di vapore zuccherata all’uovo. È ora di
tornare all’ostello, intercettare le mie compagne di viaggio e scendere di
nuovo giù in basso.
Château Rouge e Proust
e Parigi insieme, troppo forse per un impasto solo.
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