Scende la sera sul
campo profughi, qui il tempo sembra scandito più nettamente, la luce obliqua
che colpisce le tende disegna sul terreno ombre più fitte, più piene. Sarà
anche per via dei rituali giornalieri, la distribuzione dei pasti, la consegna dei medicinali,
le preghiere al tramonto con i corpi che si piegano come meridiane a
ringraziare dio, il sole, l'uno e l'altro. Provo un senso di pace, come se le
lancette dell'orologio battessero al ritmo del vento, del cielo che muta, delle
parole che non capisco ma suonano ferme e vere come la terra sotto ai miei
piedi.
Ci sono anche bambini nel campo, un gruppetto di cuccioli neri che stanno sempre assieme e si badano
l'un l'altro, senza che sia ben chiaro chi è fratello di chi. Con i bambini è
così, spesso sembrano più grandi di noi cosiddetti adulti, e il visetto tondo
di Ibrahim, qui, ha un'espressione seria e compunta quando accompagna in giro
la sua forse sorellina. Dormono in una delle tende allestite insieme alle
mamme, anche se ancora non ho capito chi è mamma di chi, ma la parola mamma è
come la parola terra, comprende e abbraccia e sorregge tutto, tutti.
Ibrahim mi spiega che
in Africa quando passa un aeroplano nel cielo i bambini fanno un ballo cantando
la canzone degli aeroplani. Mi fa vedere come si fa, inizia a ballare in tondo
con le braccia tese e in un attimo tutti gli altri bambini lo seguono, con qualche
adulto che canta. Chiedo di cosa parli la canzone e mi viene risposto che fa più o meno così: aeroplano aeroplano che voli, portami via con te.
Dopo aver fatto gli
aeroplani i bambini sono stanchi, Ibrahim viene a salutarmi facendo capolino
sulla porta.
- Where do you go now?-
gli chiedo.
Lui indica la tenda e risponde semplicemente: - Home -.
Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi
Spesso si sentono politicanti e agitatori di piazza vari ragliare insensatezze sull'accoglienza, sul fatto che i bambini si, le donne forse, i ragazzotti con gli aifon no (del resto anche un certo tipo di mafia old-style diceva "niente donne e bambini"). Come se i bambini potessero capirlo, accettarlo. "Case" o "paesi" prive di padri, fratelli maggiori, nonni. Il dialogo tra culture diverse non è semplice, forse ci sono troppe aspettative reciproche, l'ho testato sulla mia pelle durante i miei viaggi nel continente africano. E ogni volta facevo del mio meglio per non dovermi sentire come l'europeo, bianco, fortunato. Ma forse, noi "viaggiatori sostenibili" non siamo poi tanto diversi dagli altri. Ad ogni modo, i bambini mi hanno qualche volta lasciato questa soddisfazione, magari mentre facevo dei disegni sulla sabbia per loro, e improvvisavo parole in swahili, e loro mi circondavano. Senza retorica, dovremmo forse iniziare a recuperare quel linguaggio infantile universale, che abbiamo relegato in chissà quale cassetto della memoria.
RispondiEliminaTi ringrazio Luca per la tua testimonianza. I pensieri e le emozioni che arrivano lavorando a contatto con i migranti sono tanti, che non riesco a far altro che raccontarne pezzettini, sperando di riuscire a trasmettere la prima e unica cosa davvero importante nella vita e nei racconti di vita: restiamo umani.
Elimina