- L'odore di un libro nuovo. Non ancora la carta e le parole che porta, ma proprio l'odore. Fare scorrere le pagine sotto al naso e odorarle come un vecchio cane felice.
- I contenitori ermetici pieni di cibo, ovvero i "ti voglio bene" dei papà che non l'hanno mai detto.
- Le espressioni della faccia quando ballo da sola.
- Allungare un braccio nel letto sotto al piumone e sentire che ci sei.
- Uscire per comprare solo lo stretto necessario e tornare con solo fantastiche prelibatezze casuali.
- I culi delle papere per aria quando infilano la testa sott'acqua.
- La camicia che vibra sulla schiena dei ragazzi mentre sfrecciano sulla bici in primavera.
- Trovarsi a un incrocio con un automobilista nervoso, dargli la precedenza a gesti e vederlo sorridere sorpreso.
- Le coppie di anziani che camminano sottobraccio, col braccio di lei sempre sotto a quello piegato di lui.
- Dire: - Ti amo - e pensarlo davvero.
mercoledì 25 ottobre 2017
Dieci cose felici
giovedì 31 agosto 2017
Un conflitto
Al mio corso di scrittura creativa è stato assegnato come
esercizio: "descrivi un conflitto". Ecco il mio.
La cosa che mi fa più paura è NON essere in viaggio.
Ogni volta che ho lo zaino in spalla, avverto il tessuto
ruvido che gratta sulle scapole, come volesse bucarle per fare uscire le ali.
Mi sembra di sentire il sapore di sale nel vento, la consistenza del terreno
sotto le scarpe in cammino. In tasca niente, nel cuore tutto. E poi,
trascriverlo. Se posso, se riesco.
E brucia, la ferita che lasciano le ali, ma dio mio la
libertà, brucia la lingua come il sale ma non posso stare senza.
Il punto è: sei sempre solo quando sei libero, davvero
libero? Forse.
Il mio conflitto è con la vita che va in linea retta mentre
io rotolo, cambio, scarto in continuazione. La mia paura è fermarmi o sentirmi
ferma. Vorrei crescere senza perdere le ali. E vorrei essere libera senza
essere sola.
domenica 26 marzo 2017
L'anello
Conosco
un posto nel mio cuore dove tira sempre il vento Per i tuoi pochi anni e per i miei che sono cento...
Lucio Dalla
É rinchiuso in una
scatola da quasi dieci anni. Se ne sta lì fermo immobile a dividere lo spazio
con lettere, foto, ricordi vari. Sul coperchio sono disegnati dei girasoli, che
prendono la polvere anziché il sole. Ogni tanto, quando vado a casa dei miei,
sollevo il coperchio e ci frugo dentro, e la scatolina rossa mi salta subito in
mano, come mossa da volontà propria. La apro, lo estraggo, me lo rigiro un po'
in mano, lo indosso. Non all'anulare, all'orafo avevi dato la misura del mio
dito medio, per restare leggeri come si può essere a vent'anni, quando ami
senza peso, come un cielo tutto azzurro.
Non l'ho mai indossato
quando stavamo assieme. É d'oro, stonava con i miei vestiti da alternativa e
con la mia pelle fresca, appena appena sbucciata dalla vita. Ha passato
praticamente tutta la sua esistenza in quella scatolina rossa, rinchiuso come
un segreto, una perla dentro una conchiglia in fondo all'oceano. Se lo si osserva
attentamente, si può vedere l'imperfezione del suo cerchio che riprende la
circonferenza del mio dito, leggermente bombata sulla destra. Certo, se lo
potrebbe mettere anche un'altra, ma calza alla perfezione solo a me, al mio
dito irregolare, imperfetto.
Le scatole chiuse sono
pericolose, e se dentro c'è un tesoro, ancora di più. Pericolose come una promessa da
mantenere, quella di una forma che è proprio la mia, che mi calza alla
perfezione. Perché in fin dei conti si tratta di un metallo che brilla al buio
perché non ha mai visto il sole, è morto come la promessa della perfezione e io
invece voglio la vita, vita, vita.
sabato 14 gennaio 2017
Donne di Marocco
Entriamo nell'hammam che è quasi sera, abbiamo poco
tempo perché alle sette è il turno degli uomini e bisogna lasciargli il posto.
Le donne berbere all'ingresso scompariranno assieme agli stracci, al sapone che
sembra caramello e ai loro occhi impossibili e verranno sostituite da nerboruti
custodi che praticano altrettanto nerboruti massaggi, rigorosamente unisex.
Escono le donne ed entrano gli uomini, difficile vederli contemporaneamente
qui.
La signora che sta
all'ingresso dell'hammam dimostra
ottant'anni ma probabilmente è più giovane di mia madre, ha un viso duro che
contrasta con la morbidezza del vestito e le sue parole schizzano come mine, né
merci né choukran servono a fermarle. Quando vede la fotocamera del mio
cellulare si infuria, le fotografie rubano l'anima, dicono, e io non vorrei mai
rubarle niente, sono mortificata ma non ci sono parole che possano avvicinarci.
Ce ne andiamo piuttosto
di fretta e infreddolite, niente prese di corrente e quindi niente
asciugacapelli e il vapore delle stanze non rimane sulla pelle, che però è
liscia e levigata come le stoffe di qui. Ci inoltriamo nel souk che brulica di gente, ovviamente uomini che vendono qualsiasi
cosa e anche qualche venditrice donna. Sono molto poche: vendono olio di argan, cibo,
e qualcuna, rarissima, sta dietro al bancone di un bar o di una bottega, velo
sempre e comunque. Hanno con sé i bambini o gli strumenti del lavoro, non si
vede qui una donna in pubblico senza qualcosa accanto a sé. Gli uomini invece
sono sempre fuori, al mercato, da soli o in compagnia, impegnati o
nullafacenti, spesso a mani vuote. Giriamo l'angolo e appare una signora
anziana, curva sotto un carico di fascine, che sale la strada pianissimo ma
senza arrestarsi. Nessuno l'aiuta.
Ci fermiamo in un
villaggio più piccolo, in quella che sembra la piazza centrale dove si trova un
bar con l'insegna della Coca Cola (in arabo) che pullula di uomini in djellaba. Anche qui, manco a dirlo,
nemmeno una donna, e io sono indecisa se togliermi la camicia o meno data
l'escursione termica di mezzogiorno. Sono una turista, quindi tutto bene, ma è
strano starmene seduta a bere, fumare e mangiare con le braccia nude che si
scaldano al sole, i tatuaggi e la mia maglietta dei Ramones e sapere di essere
l'unica donna presente a farlo. Nessun uomo dice mai niente, ma mi piacerebbe
parlare con un'altra donna, anche solo per non capirsi e ricevere occhiate che
hanno una voce, che squarciano la povertà delle parole.
L'ultima sera andiamo
in un bar moderno, nella Marrakech francese fatta di grandi boulevard e licenze
per la vendita di alcolici. Ci fanno entrare nonostante il nostro abbigliamento
trekking-straccione, perché siamo occidentali, e ci scortano in una sala col
DJ, musica altissima e tavoli rotondi con servizio cocktail e shisha (narghilè). Qui ci sono varie
ragazze marocchine, senza velo, bellissime e vestite molto meglio di me che
ballano, bevono, fumano il narghilè. Mi sembra di essere in un flashback del
mio Erasmus, gente internazionale e locale che fa festa. Tutti conoscono il francese,
mi basterebbe alzarmi e andare a parlare, ma per qualche motivo non lo faccio.
Ci sono silenzi
assordanti, che spiccano di più nei luoghi pieni di colori e profumi e dove tutto
è disegnato e intarsiato senza mai uno spazio vuoto, come i prodigiosi
motivi arabi che decorano gli edifici più importanti. Per me, qui, è stato il
silenzio degli occhi della donna berbera, occhi che non si fanno rubare, né
dimenticare.
Marrakech, palazzo El Bahia, dicembre 2016 |
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