Siamo in un tipico bar del sud della Spagna, strapieno di gente vociante e
cosparso di pipas, termine
intraducibile per definire quella specie di legumi che si usa mangiare e sputare
poi le bucce a terra, lasciando un poetico corredo di scorze nerastre che
costellano il pavimento, il bancone, le sedie, i tavoli. Sembra molto più
brutto di quello che è in verità, cioè un manto ruvido marrone nerastro che fa
quasi Messico e nuvole (che voglia di piangere ho).
Naturalmente è impossibile liberarsene, delle pipas, e anzi ne localizzo una nell’incavo del tuo gomito mentre mi
parli animatamente e la tentazione sarebbe di scaraventarci tutti e due nelle
acque purificatrici del Guadalquivir. Invece ti ascolto, annuisco
semisorridendo e ti ascolto.
Mi parli di tuo padre che perse il lavoro quando eri piccolo, di tua madre
che è così contenta che ti sei laureato, sei il primo in famiglia! E ora che
sei lontano da casa, loro sono contenti lo stesso. Mi viene addosso una ragazza
bruna ubriaca e felice che grida qualcosa, così ci schiacciamo ancora di più
contro il bancone. Maledette pipas.
«Tu non ti rendi conto» mi dici, con tono forzatamente alto per sovrastare
quel colorato casino «Non pensi mai a quanto sei fortunata? Voglio dire, c’è
gente che si alza la mattina per fare sempre lo stesso lavoro di merda. Sempre la stessa cosa, avvitare
bulloni, archiviare pratiche, mettere il cazzo di tappo su un cazzo di
dentifricio» dici, e sbatti la mano sul bancone, senza violenza, così.
«Dovresti pensare di più agli altri» concludi, prendendo un generoso sorso di cerveza.
Io non so cosa dire, e non succede spesso, sinceramente. Ti guardo che
guardi oltre, aldilà delle teste dell’umanità da bar sivigliano, chissà dove
cazzo guardi. Magari guardi me in verità.
«Hai ragione» dico alla fine, guardando nel bicchiere «Hai ragione. Sono
una bambina viziata del cazzo. Ho letto troppi libri forse» aggiungo, e quasi
rido. Quasi, perché sui libri non c’è troppo da scherzare, è l’unica cosa seria
che ci è rimasta.
Tu non dici niente, ma hai l’aria contenta. La gente ti sbatte addosso,
come sempre in questi bar, ma non te ne importa. Non te ne importa e io sorrido
e vorrei che tu mi guardassi per vedermi sorriderti.
«Allora adesso dove andiamo?» ti dico, senza smettere di sorridere anche se
tu continui a guardare oltre.
Tu abbassi lo sguardo - io sono piccolina, devi abbassarlo per forza per
guardarmi. Mi sorridi anche tu, solo un poco, così.
«Hai una pipa nei capelli» mi
dici ridacchiando, e passi la tua mano grande nei miei capelli, così.
«Restiamo qui» mi dici, senza togliere la mano.
E a Siviglia
Le stelle suonavano forte come tanti sonagli.
Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi.
puente Triana, Sevilla novembre 2012 |
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