Forse è passato
abbastanza tempo per poter ricordare, ricordare il caldo sotto alle coperte e
le nostre gambe a forbice e tu che mi abbracci, ancora dormi e mi abbracci da
dietro senza parlare come un bimbo grande e io sorrido al buio, forse lo senti
attraverso la mia nuca, e i capelli sparsi sul cuscino come ciuffi d'erba e noi
tassi in una tana blu, dici che sono un'ape ronzina e mi tiri i sassolini
quando camminiamo in montagna, ci andiamo assieme per la prima volta ma il
salame nel pane è lo stesso dei miei sette anni, e mi parli di tuo padre e ti
fai serio e io divento mamma, e poi il tuo cane puzzolente mi annusa e non abbaia più perché sa che sono con te, e mi fai entrare nei tuoi cassetti colorati e
mi dici, voglio tanti bambini e ho paura perché io invece no e allora stiamo
zitti, non ci teniamo per mano e il silenzio romba nella stanza come un aereo a
bassa quota, però non ci pensiamo perché il cielo è azzurro fradicio e noi
siamo qui e ora e io penso, vorrei tanto che fossi tu, e una notte mi dici che
mi ami come se parlassi tra te e te e un giorno mi risveglio bambina nuda e
allora mi arrendo perché ti amo anch'io, e tu devi partire ma ormai mi abiti
dentro come un pane nel forno, sei lievitato e mi occupi tutta e il cuore è caldo di pane, e poi piombano l'autunno e il telefono, ci vediamo riflessi come
pesci che non possono saltare da un lago all'altro e il cuscino è una pozza che
bagno sperando di trovarti lì dentro e odio le domeniche e gli aerei e tutto il
mondo dove ci sono io senza di te e allora sì, la cosa migliore è lasciar
andare, si può amare qualcuno e lo stesso lasciarlo andare e sentirsi dentro un
tasso un sasso un cane un pane un cuore caldo e non c'è più spazio per
nient'altro e allora per favore resta, resta.
lunedì 26 novembre 2018
giovedì 18 ottobre 2018
Opossum
Si sveglia col
cuore in gola. La sensazione è quella di tirare improvvisamente la testa fuori
dall'acqua, avida d'aria, risucchiando tutto quello che le riesce. Lo chiamano
panico, dal greco pan, tutto. Lei ha sete di tutto, deve riempirsi per non
sentirsi vuota e vacillare di fronte al buco. Per questo va in difetto d'aria e
le vengono le cosiddette apnee notturne, si sveglia sfinita dalla lotta per
respirare, già in debito di ossigeno non appena apre gli occhi. Al suo fianco
intravede la schiena addormentata di lui, che si solleva e si abbassa a
intervalli regolari come lo scafo di una nave rovesciata, sembra mossa da un
moto maroso tranquillo, che concilia il sonno. Lei invece si sente nel petto i
gorghi mitologici di Scilla e Cariddi, rantoli d'acqua rabbiosa contro non si
sa chi. Deve stare attenta a non caderci dentro o è la fine, deve alzarsi ora,
quindi si strappa via dal letto.
Lo Xanax alla
mattina è meglio non prenderlo o si passa l'intera giornata in trance chimica,
e poi il sapore è orrendo, ricorda quelle medicine acide che le davano le
suore, e allora cloro al clero. I vestiti si infilano da soli perché per
fortuna è estate, senza bottoni o legacci vari. Niente caffè, ovviamente, deve
solo uscire per andare al lavoro, per fortuna non guida dato che il tempo è
bello, andrà in bicicletta. E se la bici le si rivolta contro? Se la attacca,
se si rifiuta di collaborare, se poi cade e batte la testa e non parla con la
madre da un mese e muore senza dirglielo lei gliela farà pagare anche da morta,
no no no, si va a piedi. Così ci metterà più tempo però, bisogna muoversi. Ha
fame ma meglio non mangiare, magari vomita, l'affanno nel petto la porterà in
giro come un motore che non si spegne mai, mai. Esce di casa, ecco i gradini.
Ha i piedi sudati, sente che può scivolare, è ridicolo perché li fa tutti i
giorni eppure ora la agitano, sente un ronzio nelle orecchie come di un colibrì
impazzito ma deve scendere, uscire. Arriva in fondo alle scale e apre il
portone. La luce abbaglia ma non scalda, come il riflesso di uno specchio. Di
fronte c'è la strada, le macchine, il traffico. La bicicletta è legata lungo il
muro, l'ha comprata gialla perché le piaceva ma adesso le sembra un colore
infido, la guarda e vede una biscia d'acqua.
Deve
attraversare il traffico della mattina cavalcando quella biscia, lo fa spesso
ma oggi no, oggi non ce la fa. Vorrebbe fermare tutto, bloccare il fotogramma
di quell'attimo e respirarci dentro, ritrovare l'aria. Ma il mondo non si ferma
mai, allora forse può fermare se stessa. Le vengono in mente gli opossum in
quei documentari sugli animali che ama tanto: praticano la tanatosi, morte
apparente di fronte a un pericolo. Non appena lo pensa si sente già diventare
più rigida, come se l'aria accumulata in respiri affannosi le si solidificasse
dentro. Mentre diventa una statua di pietra e il peso del suo corpo immobile la
trascina verso terra, prova finalmente un grande senso di pace.
lunedì 2 luglio 2018
Ultimo giorno di scuola
"Così anche
lei si sente insicura, piccola, e crede di non essere abbastanza, proprio come
me."
T.P., 15 anni
15
maggio. Oggi mi sembra che il mio braccio sinistro sia più
lungo di ieri. Forse perché mi ci sono addormentato sopra dopo basket, ero
stanco morto e puzzavo di cane e volevo solo dormire al calduccio nel mio
sudore e insomma poi mi sono risvegliato col braccio tutto informicolato e mi
sembra proprio che adesso sia più lungo, boh. Chissà se lei lo nota. Si è
accorta che mi sono tagliato i capelli da solo, figurati se le sfugge il
braccio allungato.
Devo finire i
compiti, altrimenti non posso uscire. Certo, potrei passare per la
portafinestra, ma poi la mamma mi becca comunque e finisce che mi tiene in
punizione per tutto il weekend e non si può fare, il sole è così tanto che adesso
scoppia e ho i piedi che vanno da soli, praticamente sono già al parco. Ho due
materie sotto e manca un mese alla fine e lo so che devo studiare ma c'è troppa
luce e ho il cuore che rimbalza come il pallone da basket, finirà per sfondarmi
la maglietta così lo vedranno tutti, anche lei.
Non sono bravo
con le fini, forse perché sono abituato che subito dopo ci sono da fare i
conti. La scuola ad esempio, è stupendo quando finisce però poi ci sono le
pagelle e tutta la scenetta delle mamme ansiose davanti ai quadri e i figli con
gli occhi bassi che annusano l'aria di giugno e fremono come cani però devono
tenere botta finché non è finita la manfrina. L'anno scorso Carlone rischiava
di brutto, aveva tre materie ed è venuto a vedere i quadri con la faccia grigia
ma la testa alta e quando ha letto ammesso con riserva ha cacciato un urlo che
hanno fatto tutti un salto ed è schizzato fuori tirando madonne di gioia e alla
fine è rientrato, ha abbracciato sua mamma ed è sparito, non l'abbiamo più
visto fino a settembre. Io invece ero stato ammesso senza debiti però non ho
fatto niente, nemmeno un balletto tipo Maori prima della partita (e sì che sono
bravino), qualche pacca sulle spalle tra noi maschi della classe e via in bici
nei campi, con mia mamma che non ha detto niente però sorrideva.
Quest'anno
invece la vedo male, ero partito in forma ma adesso non ne ho più e il peggio è
che vorrei solo starmene fuori a giocare a basket, con il pallone al posto del
sole che ogni volta che faccio canestro lui tramonta e finisce la giornata e
poi ricomincia con io che prendo la mira e così via, sempre.
1
giugno. Mancano nove giorni! Ce la posso fare (forse). Lei
è tesissima, non le si può parlare, ha paura di prendere matematica e forse
anche italiano, dice che non sa scrivere, che i pensieri in testa ce li ha
chiari ma poi non sa come metterli giù e la capisco bene, per me è lo stesso. A
volte mi sembra che siamo proprio simili, tipo a lei dà un sacco fastidio Ivan
che ha l'alito pesante, si vede proprio che smania quando lui le fiata addosso
ma non glielo direbbe mai perché ha l'apparecchio eccetera, e quindi piuttosto
fa la nervosa con le amiche ma a lui non dice niente. É un po' lo stesso con
Paco a basket, ovvio che mi dà fastidio che è lento e si fa fregare sempre sui
passaggi ma mica posso dirglielo, lo sanno tutti che sua mamma beve. A dire il
vero una volta qualcuno l'ha preso in giro facendo il gesto del bicchiere e lui
è diventato improvvisamente calmissimo, è andato da quello che aveva fatto il
gesto e gli ha spaccato il naso con un pugno. Forse siamo solo due ipocriti, ci
piace sentirci buoni quando invece le persone non hanno nessun bisogno della
nostra compassione.
Comunque,
inglese l'ho tirato su, resta solo una materia a rischio. Si gioca il tutto per
tutto in una settimana. Solo che c'è il sole, la finale di girone che non so
nemmeno se mi convocano, la festa di istituto, e il sole. Vorrei che mi stesse
tutto in tasca, così potrei tirare fuori una cosa per volta, capirla per bene
e rimetterla via.
10
giugno. Finita! Cazzo, sì! Tre mesi di azzurro, zampironi, anguria
fin dentro i polmoni, piedi neri di sabbia e terra, palloni scortecciati da
tutte le volte che rimbalzano sul campo, gelati e sigarette (non quelle della
mamma però, che l'ultima volta se n'è accorta). Ai tabelloni c'eravamo tutti, lo
squadrone completo. Carlone bocciato, stavolta non c'era scampo, ha visto i quadri e ha fatto uno sguardo da pirata, una risatina ed è sparito, cicca in
bocca, sua mamma non c'era. Tutti gli altri promossi, lei ha preso solo matematica,
mi ha abbracciato forte e poi mi ha detto vieni, devo dirti una cosa. Siamo
andati in palestra, l'odore che c'è lì mi rassicura sempre, mi sembra di avere
il pallone da basket al posto del cuore e di poter controllare i battiti come
quando palleggio. Stavolta però insomma, sudavo come un opossum e non sapevo
cosa fare con le mani, con la bocca, niente. Per fortuna c'era lei, si vedeva
che non sapeva niente come me però continuava a tenermi le mani e non si è
nemmeno accorta che ho un braccio più lungo dell'altro, o forse sì e non le
importava, forse è proprio questo che le piace, sono tutto strano e fatto di
pezzi che non c'entrano niente tra di loro ma per qualche motivo stanno assieme
e mi fanno intero, come un animale che non si sa bene che cos'è, e mentre lei
mi teneva le mani ho pensato che forse è questo l'amore, non sapere niente e
rotolarsi nella vita senza capo né coda, però insieme.
lunedì 7 maggio 2018
Gina
Gina ogni
mattina passa almeno cinque minuti a toccarsi i capelli, ci infila le dita
dentro e li carezza dalla base alle punte, seguendo le loro onde coi
polpastrelli come a disegnare un mare in burrasca. Si dice che da giovane fosse
bellissima e la sua chioma di ricci avesse fatto quasi impazzire il maresciallo
dei carabinieri, che per lei aveva disertato i suoi doveri provocando un'ondata
di furti e scassi come non si era più vista dal '45, quando la libertà aveva
dato alla testa a tutti e si poteva comprare una radio rubata in piazza per mille
lire. Gina però aveva preferito sposare Enzo, che faceva il fornaio e lavorava
a una temperatura di quaranta gradi, poi usciva per andare a prenderla con il
corpo ancora caldo e quando facevano l'amore lei si sentiva squagliare fino
dentro le vene. Per uno scherzo del destino è morto per un colpo di calore in
spiaggia tre estati fa, e Gina è rimasta sola.
Deve pensare al
marito, Gina, quando prende il pane da tavola e se lo mette nel piatto senza
mangiarlo, covandolo come un tesoro. Mangia tutto il resto ma il pane no, e non
c'è verso di portaglielo via, bisogna aspettare la fine del pasto e solo allora
Gina lascia che il piatto venga ritirato, con il pane intatto. Magari lo fa
perché il pane è più duro delle pietanze da anziani e ogni tanto non le riesce
di masticare bene, muove la mascella in modo scoordinato, perché non si ricorda
più come si fa. Una volta le hanno portato via il pane dal piatto mentre guardava
fuori dalla finestra e quando se n'è accorta ha fatto una scenata tale che ci
sono volute tre persone per calmarla, strillava e piangeva come una bambina che
fa i capricci. Il pane, o Enzo, Gina non l'ha dimenticato. Tutto il resto
scivola via giorno dopo giorno, sbiadiscono i nomi dei figli, il giorno delle
nozze, il volto della madre, il nero dei suoi ricci che facevano impazzire.
Quando ogni mattina Gina li accarezza non si sa cosa pensa, o se pensa. Ma
mentre piano piano si dimentica come parlare, le sue mani conservano la memoria
della bellezza, del pane, dell'amore.
giovedì 22 marzo 2018
Haiku di primavera
1.
Strali d'azzurro
Stracciano ieri neri.
Rinasco erba.
2.
Mi sento nuova
Quando la pelle morta
Diventa luce.
3.
Zolle di terra
Solcate da ferite
Bevono sole.
martedì 13 febbraio 2018
Yoga
Una storia in cui passi
più tempo a mancarti che a stare assieme non è una storia. É un racconto a
singhiozzo, fatto di punteggiatura, con qualche paragrafo qua e là, solo. É
l'insieme delle boccate d'aria del nuotatore mentre fa una vasca. Il tempo assume
proporzioni inedite, si dilata e sfilaccia e annacqua come se
piovesse sempre, secchi e secchi di acqua di risciacquo. Il martedì potrebbe
essere giovedì o venerdì, non importa, sono tutti giorni ugualmente lontani
dalle vacanze di Natale, dal prossimo ponte, dall'aereo che arriva. Oggi è martedì,
c'è yoga. Un'ora per me, come se ce ne fossero altre non per me, ma per noi, in
cui non sono sola, ma non importa.
Arrivo puntuale, mi
piace avere il tempo di srotolare il tappetino sul pavimento e allinearlo con
precisione alla parete, di fronte allo specchio, e mi piace prendere sempre lo
stesso posto, in fondo alla sala, vicino alla maestra ma non troppo alle altre
allieve. Mi piace il contatto della stoffa dei calzini sulla plastica morbida e
zigrinata del tappetino rosa, io odio il rosa ma se i colori avessero una
consistenza il rosa sarebbe questa, soffice ma densa, con l'impronta dei piedi
che rimane impressa per un attimo e poi se ne va, dolcemente. Le sette meno
tre, ancora pochi minuti prima che inizi la lezione, prima dell'essenza di
lavanda spruzzata nell'aria di fronte a noi allieve in piedi, erette come
giunchi, chi più dritta chi meno, tutte con le mani giunte di fronte al petto
in segno di pace, come se quel gesto potesse rallentare il tumulto che si trova
qualche fibra di tessuto e carne e ossa sotto, nel cuore che palpita rosso come
una lanterna cinese, come nel film dell'extraterrestre tradito da quel tamburo
martellante e visibile come un neon che porta gli uomini da lui per farne una cavia
da sezionare. Respiriamo. La lezione inizia, ci facciamo guidare. Sento il mio
respiro caldo che passa attraverso le narici ed esce vibrando e subito
ridiventa fresco quando inspiro, mi sento calma ma inspiegabilmente man mano
che vado avanti inizia a venirmi da piangere, sempre di più sempre di più come
una fontana che trabocca, prima quasi impercettibilmente la superficie
dell'acqua tremola perché ha raggiunto la massima capienza, poi a malapena
visibile un filo d'acqua lambisce le pareti di pietra della fontana come bava
di lumaca e infine piano ma inesorabilmente l'acqua scorre ai lati, limpida, lenta
ma costante. Non posso mettermi a piangere a lezione di yoga ovviamente quindi
mi trattengo, stringo i denti e ingoio il groppo alla gola ma sento che ho gli
occhi lucidi, il cuore non si vede ma gli occhi sì, anche se non vuoi, per
fortuna siamo in penombra ma avverto chiaramente una sorta di patina sulle
pupille e le lacrime spingere sotto con dolce prepotenza come bambini, e mi
trovo a pensare, ma come saranno le lacrime al buio, per fortuna ora arriva la
parte della lezione distesi, magari mi passa. Ci distendiamo supine sul
tappetino, il rosa assorbe le curve del mio corpo e le ammorbidisce, sprofondo
un po' ma resto compatta mentre la maestra con la sua voce dolce passa da
ciascuna allieva per aggiustare la postura e spalmare un po' di olio essenziale
sui polsi. Respiro aspettandola, lottando contro l'acqua che vorrebbe
traboccare dalla fontana semplicemente perché è troppo piena, è la sua natura
uscire quando dentro non c'è più spazio, e mentre la maestra si avvicina sento
qualcosa, come un moto di immensa, inequivocabile unione con tutte le cose che
traboccano e piangono e con tutte le cose sole del mondo e quando lei arriva da
me e si inginocchia con grazia io sono tutta tesa e allo stesso tempo
completamente morbida, come se avessi preso la forma del mondo sul quale sono
distesa, arresa, ed è allora che lei mi tocca, mi allinea le braccia e mi sistema
le spalle per farle aderire meglio al terreno con una delicatezza, una cura, che
non saprei in che altro modo definire se non amore, perché lei è lì e non
altrove e si cura delle mie braccia stanche e delle mie spalle in disordine e
mi tocca, c'è, e sono così commossa da quel tocco che non posso più tenermi e
lascio che l'acqua scorra in due fili sottili e caldi sulle guance che
bruciano, nella penombra, distesa, senza emettere un suono, grata a quella
sconosciuta che si cura di me, lì, sola, distesa su un pezzo di mondo.
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