Questo silenzio
cova le parole di domani.
martedì 2 dicembre 2014
domenica 12 ottobre 2014
Metro
6:55, la notte già strizza
gli angoli degli occhi per aprirli al giorno che arriva, mi scrollo via il buio
dalle spalle e scendo in fretta le scale della metropolitana.
Mi sento come Pinocchio
nella pancia della balena, immersa in un plancton fatto di persone. Nessuno
parla a quest'ora, ci si sfiora con lo sguardo, molti leggono il Metro, le
ragazze sono tutte belle anche se hanno ancora la forma del cuscino sotto agli
occhi, gli uomini sembrano tutti tuo padre o il tuo professore del liceo, le
pelli sono di tutti i colori e si amalgamano alla perfezione come un dolce
fatto in casa.
Una coppia di ciechi
che vedo ogni mattina si avvicina alle panchine, si tengono per mano e con
l'altra spingono avanti il bastone bianco, io mi chiedo ogni volta se quando si
sono conosciuti ci vedevano oppure si sono innamorati al buio.
Un'altra coppia di
ragazzini si stringe, si tocca, lui le tiene il viso tra le mani con gesti
precisi, quel tipo di gesti che nessuno ti insegna, li conosci già. Lei non si
vergogna, ridono, sono gli unici che parlano e il loro portoghese ha il suono
della campanella di scuola.
Io aspetto di salire e
so già che troverò un paio di facce che vedo sempre, non ci conosciamo ma ci
vediamo ogni mattina, il treno ha sei vagoni eppure ci ritroviamo sempre nello
stesso, e se per caso capita che non ci incontriamo mi dispiace e arrivo al
lavoro più pesante.
Il treno è arrivato, quando
le porte si aprono chi esce si mescola a chi entra, qua non c'è l'ordine
nordico, è tutto un po' un casino, ma io mi sento al caldo e al sicuro.
Dopo un paio di fermate
si libera un posticino, mi lascio cadere a fianco di una signora angolana coi
capelli avvolti in uno scialle colorato e, anche se qui ho sempre la tentazione
di appoggiare la testa sulla spalla dei miei vicini, la lascio andare
all'indietro contro al vetro.
Chiudo gli occhi e
sogno in un'altra lingua.
sabato 23 agosto 2014
Scuola
Mio padre ha una storia comune e suo
figlio è una nave pirata.
Francesco De Gregori
Mia madre oggi non riesce a sedersi a tavola per il pranzo. Si aggira per la cucina come un leone in gabbia, scuotendo la testa e
passandosi le mani sulla fronte, con un'espressione dura tra le sue solite,
dolci rughe, un'espressione da fiero animale ferito.
Nella mia famiglia le donne hanno mani piccole e ossute, sembrano fatte
apposta per tenere la penna, o per agitarsi o torcersi o dare un pugno al
tavolo, un pugnetto che pare la faccia di uno gnomo.
Mia madre andrà in pensione a 65 anni.
Mia madre ha iniziato a lavorare come professoressa a 26, di anni, in
un valle sperduta del Trentino in cui la sera ci si poteva spostare solo con le
catene, e forse era meglio non uscire per nulla, ma lei comunque era
felice perché aveva spiccato il volo fuori dal nido della SUA mutter, ovvero la
mia nonna trentina tenente di ferro.
Mia madre se n’era andata in Alto Adige a insegnare, prendeva dei soldini e
se la cavava da sola, lei e la sua amica, pure lei insegnante, in quella
casuccia in legno col fornello a gas e il boiler, e poi arrivava mio padre e la
portava a sciare.
Mia madre, la guardavo dai miei pochi centimetri di altezza che diventavano
sempre di più, e le chiedevo: - Mamma, ma cos'è questa foto che hai attaccata
alla porta? -, e lei: - è un regalo dei miei studenti -, e mentre lo diceva
sorrideva sottovoce, e sorridevano anche quei tre cialtroni ritratti nella foto,
mentre posavano fuori dall’ospedale psichiatrico avvolti da immaginarie camice
di forza.
Mia madre porta i compiti in classe dei suoi alunni a mia nonna, alla sua
mutter, quando la va a trovare, perché li legga e dica quali vanno bene e quali
no, intanto annuisce attenta e prende nota di tutto e poi a casa mette
i voti che decide lei, ma la nonna è contenta lo stesso e forse la
sera ripensa a quando era una maestra che biciclettava nelle valli per far
lezione, marinando i sabati fascisti.
Mia madre la sento rispondere al telefono bisbigliando quando la chiama
qualche suo alunno che é nei guai, e allora lei assume un tono
rassicurante ed energico e calca le parole importanti e a me viene da ridere.
Mia madre non ne può più e fa correggere i compiti a me e poi mette i voti
che decide lei, e io penso alla nonna e vorrei pedalare nel freddo degli anni
Trenta con i libri nascosti sotto la divisa.
Mia madre ha una storia comune. Mia madre ha già dato.
Mia madre ha gli occhi stanchi nel viso indomito, alla fine si lascia
cadere sulla sedia con un sospiro secco e sbatte la mano sul tavolo.
Io prendo il mio piccolo pugno e lo metto vicino al suo piccolo pugno.
Due facce di gnomo.
sabato 2 agosto 2014
Sale da aspetto
Quando avevo dieci anni e andavo
in montagna, il recinto di legno mi carezzava la pancina, ruvido e solido, mi
si opponeva come un ostacolo amico, fermo e sicuro. Oltre a lui i monti, le
alpi viola e odore di resina e muschio e miele e prati color di ginocchio
sbucciato. Lo strapiombo alpino non mi spaventava, perché c'era il recinto di
legno scuro che mi sosteneva, rendeva le grida di mia madre solo un'altra
melodia alpina. E l'occhio della montagna era sempre azzurro, grazie a quel
marrone ruvido scuro.
La città lava via i colori, li
rende opachi, banali, come un invisibile strato di cipria steso dalla mano
pesante di una truccatrice.
- Cosa c'è in tv stasera? -, la
melodia cittadina ha lo stesso suono di un tasto premuto. Un'intera tastiera
scaricata nelle orecchie, senza richiesta. Non ci sono recinti, ma spazi che
portano in altri spazi e altri spazi e altri spazi.
- Ma che ore sono, le sei e mezza?
-, - Da me c'è un silenzio... -, - Devo andare adesso -.
Tasti che picchiettano, voci non
melodiche, solitudine. Sale da aspetto.
Non c'è solitudine più grande di
quando ci si guarda in uno specchio, diceva sempre mia madre, e io non capivo.
Il pavimento è grigio, due file di
poltroncine dimesse ma dignitose si fronteggiano, intervallate da porte chiuse,
e a sinistra c'è il banco dell'accettazione. Rispettare la distanza di
sicurezza.
Le poltroncine vicino alla mia
sono parzialmente occupate e non posso fare a meno di sbirciare le facce di chi
le occupa. Parto prevenuto, scruto le figure come se già mi aspettassi di
trovarci qualcosa di strano. Alla mia destra, ma saltando un posto, c'è un uomo
di mezza età dal viso stanco e l'occhio immobile, fisso, pochi capelli e una
forte pinguetudine che si nota quando si alza alla chiamata dell'infermiera.
- Vieni, Bruno -, lo chiamano per
nome, sarà un'abitué. E io? Lo so, sto facendo la cosa giusta, sono più forte a
starmene seduto qui che a girare tre volte il mondo a piedi. Però...
Di fronte a me un ragazzo, vestito
come me, si guarda attorno tranquillamente e io sospiro tra me e me: ecco una
persona che sembra normale, come me, eppure è qui. Allora forse... Ah no, lo
chiamano, è un tirocinante. Ecco.
- Scusi -, sento una voce alla mia
sinistra, accompagnata da una mano che timidamente ma con sicurezza mi tocca il
braccio. La proprietaria della mano è una signora sui cinquanta, occhi marroni,
pelle polverosa che sembra avere tanti strati. Ha uno sguardo buono e inerme,
con una piccolissima luce di allarme in fondo agli occhi.
- Sa che lei... Posso darti del
tu? Assomigli tanto a mio figlio - mi dice la signora, sempre pacata ma sicura e mi guarda.
- Davvero? - dico, confuso - E...
Come si chiama? -
- Giovanni - dice la signora, e
sorride. Si sporge di nuovo verso di me, apre la bocca, poi si riscuote e la
richiude. Si appoggia allo schienale e si rimette composta, lanciandomi un
ultimo sorriso, piccolo e salterino come un passero. Arriva l’infermiera, io
sono così confuso e preso dai miei pensieri che non la sento pronunciare il mio
nome.
- Giovanni- mi sussurra la voce
della signora, bassa e calda, come una tazza di tè - Tocca a te -.
La guardo che mi osserva
mitemente, mi alzo.
Seguo l’infermiera e non sono più
solo.
Dalla raccolta immaginaria Altri racconti
Dalla raccolta immaginaria Altri racconti
domenica 27 luglio 2014
La fine
Siamo andati al cinema, la mamma Federico il papà e io, ci
sono solo quattro sale e niente scale mobili e operatori col cappellino e maxischermi e vasche di popcorn. Le poltrone sanno di rosso caldo e i nostri ci
comprano le M&M'S, vietatisssime a casa!, che goduria. Le mie preferite
sono quelle marroni perché mi sembra che ci sia più cioccolato.
Federico sbuffa, nel film ci sono "due che si
amano" come si dice tra di noi a scuola e lui non ha voglia di vedere
smancerie. Il film non parla mica di questo, d'amore, ma nella trama c'è
comunque spazio per la storia d'amore, due che si vedono e si piacciono e si
avvicinano e si allontanano e alla fine si baciano. Poco prima della fine, di
solito, assieme al ritrovamento del tesoro o riunione della famiglia o sconfitta
del cattivo, ci sono i due che si vedeva che si piacevano fin dai primi 5
minuti di film, che si baciano o si prendono per mano o si sposano o uno dei
due muore (ma questi film con la morte alla fine i nostri non ci portano tanto
a vederli).
Nel film di oggi i due protagonisti semplicemente si baciano,
ma un bacio lunghissimo con sotto la musica di violini viole e violette e
Federico fa: - Bleaaarg -, lo sentono due signore vicino a noi e borbottano e
la mamma fa: - Sssss - ma solo un pochino, perché le scappa da ridere.
Fuori dal cinema c'è ancora un po' di neve per terra, tutta pesticciata dai passanti, e io e Federico ci mettiamo subito a fare le nuvole di vapore col fiato e lui prova a farne una coi rutti e mio papà gli dà uno scappellotto leggero e poi dice: - Andiamo a casa -. Per fortuna nel film c'erano anche gli americani e i nazisti che combattevano, sennò povero Federico.
Fuori dal cinema c'è ancora un po' di neve per terra, tutta pesticciata dai passanti, e io e Federico ci mettiamo subito a fare le nuvole di vapore col fiato e lui prova a farne una coi rutti e mio papà gli dà uno scappellotto leggero e poi dice: - Andiamo a casa -. Per fortuna nel film c'erano anche gli americani e i nazisti che combattevano, sennò povero Federico.
A casa ci sono le frittelle avanzate dal giorno prima, è
Carnevale e ogni scherzo vale! Federico si acquatta sotto al tavolo e appena il
papà si siede gli agguanta una gamba ruggendo: - Sono l'alligatore nelle fogne!
-. Il papà sospira, mi sa che preferiva uscire coi suoi amici visto che è
domenica e domani prende il treno delle sette, poi però tira fuori Federico da
sotto il tavolo e gli ficca in bocca una frittella, così sta zitto, e io rido.
Il mio papà ha un tatuaggio sul braccio un po' scolorito, perché prima di fare il geometra era un pirata e la mamma era già maestra e
insegnava ai bambini delle tribù che incontravano quando sbarcavano sulle
isole. Poi però si sono sposati e sono venuti a stare qui con noi.
Le mie frittelle preferite sono alla crema e mi inzucchero tutto il naso mangiandole.
La mamma deve ancora correggere le verifiche per lunedì e continua a ripetere di non spargere lo zucchero sui fogli, allora il papà le dice perché cappero (cappero?) non le tiene sulla sua scrivania in camera e la mamma dice: - Dai, Franco! -, e morta lì.
Le mie frittelle preferite sono alla crema e mi inzucchero tutto il naso mangiandole.
La mamma deve ancora correggere le verifiche per lunedì e continua a ripetere di non spargere lo zucchero sui fogli, allora il papà le dice perché cappero (cappero?) non le tiene sulla sua scrivania in camera e la mamma dice: - Dai, Franco! -, e morta lì.
Io penso che non lo so perché tutti i film finiscono quando i
due che si amano si baciano o si sposano o muoiono, e non fanno vedere cosa c'è
dopo. Penso che quella non è la vera fine. Anzi, non è la fine per niente.
Federico si ribella, sputa metà frittella sui fogli della
mamma che urla, il papà dice: - Ecco, vedi? -, io rido, tutti a letto.
- Franco, non devi riprendermi davanti ai bambini! - fa la
mamma con voce bassa e nervosa fuori dalla mia stanza, prima del bacio della
buonanotte.
- Sì, ma anche tu diobono, metti a posto 'sti fogli no? -
risponde il papà a voce ancora più bassa, la mamma scatta e fa: - Mmmmmm -
come il rombo di un aereo e entra nella mia stanza sospirando.
Mi dà un bacio veloce che sa di poltrone rosse e zucchero e fogli, e del dopobarba di papà.
Io lo annuso forte sotto le coperte e chiudo gli occhi.
Io lo annuso forte sotto le coperte e chiudo gli occhi.
Dalla raccolta immaginaria Altri racconti
sabato 12 luglio 2014
Pullman da Berlino
I finestrini sono grandi abbastanza da restituire uno specchio grigio,
duro, freddo. Tutto funziona, tutto è diritto e solido e funzionale. La pioggia
si rovescia sul vetro ma non ha nulla di scrosciante e libero come è tipico
dell’acqua. È acqua ordinata, questa.
I’m sticking with you, canta Nico. Mi risuona nelle orecchie dagli auricolari, certo
era più suggestivo ascoltarla al Tacheles, circondata da sculture di ferro, ma
tant’è. E poi parliamone, della musica che ti accompagna durante i viaggi: la
porta dello specchio magico. Rivelazioni e brividi grazie a lei.
Il signore seduto di fianco a me russa un po’, con la bocca semiaperta. Ha
un basco verdastro che gli cala sul faccione e, detto tra noi, non è un grande
spettacolo. Mi ricorda un po’ un mio ex, cosa che mi fa sorridere. La pioggia
batte.
Penso a te che mi dici -I don’t care-
quando ti chiedo se vuoi che io resti a Berlino oppure no. Di tutte le cose che
si possono dire, hai scelto questa. Forse non è così importante il posto in cui
si è, o forse invece sì.
Penso al Tacheles con le pareti affrescate di colori neri e punk o
sgargianti da copertina di disco anni ’80, le scale a chiocciola da condominio
tossico, gli artisti confusi con la gente, la fotografia della suora con il piercing
ai capezzoli.
I don’t care è peggio di un no, però è la verità. Che, detta
in un sacrario di arte spontanea come un fiore che buca la neve tedesca, va
rispettata più che mai. E poi così posso godermi i Velvet in corsa con la
pioggia, un dolore delizioso. Quasi quasi ti ringrazio. Oppure no.
I’ll do anything for you
Anything you want me
to
I’ll do anything for
you
I’m sticking with you
Velvet UndergroundDalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi
Tacheles, Berlino, febbraio 2010 |
domenica 29 giugno 2014
La tazzina
Mi
sveglio di colpo, il sonno alcolico delle cinque di mattina è molto leggero e
il torpore passa quasi subito, lo sollevo come una pellicola trasparente.
Nella
semioscurità localizzo vestiti, mensole ricolme di oggetti (le mie lenti a
contatto in una tazzina da caffè), amplificatori, ciabatte sdrucite. La luce tenue
dei lampioni filtra dalla finestra semichiusa, tutto tace.
Mi
alzo, piano. Non occorre che ti svegli, ho già detto che non avrei dormito da
te.
Prendo
la tazzina e vado in bagno. Mettersi le lenti sugli occhi impiastricciati di
trucco e cisposi per il sonno e il vino è un’impresa. Sono tutte secche, come
se non bastasse. Allora faccio una cosa schifosa, a mali estremi: ci sputo
dentro, un pochino, così le umidifico. Me l’ha insegnato Carlotta, una volta
lei l’ha fatto su una mia lente che mi ero tolta per sbaglio, in una discoteca,
nel bel mezzo della pista. Ha funzionato quella volta e funziona anche adesso.
Torno
in camera, facendo sempre molto piano. Mi vesto con movimenti impercettibili, o
almeno così credo, perché sento la tua voce piena di sonno che mi chiede dove
vado.
A
casa, ma dai dormi qui, no dai vado a casa, tranquillo, preferisco, ma guarda
che davvero non c’è problema, lo so lo so ma preferisco.
Sono
pronta, ho raccolto tutte le mie cose e indossato tutti i vestiti (a parte il
reggiseno, che metto in borsa. Poi me lo dimentico e il giorno dopo non lo
trovo e poi apro la borsa ed eccolo, fuori contesto, come un regalo bizzarro
fatto da un amico che non ti conosce bene).
Sguscio
fuori dalla tua camera, individuo giacca sciarpa cappello guanti e li indosso
alla rinfusa. Sento che ti alzi e mi raggiungi, giusto in tempo per vedermi
aprire la porta di casa.
Ma
dai sei sicura, sì dai vado, tranquillo, buonanotte, buonanotte. Mi fiondo giù
dalle scale, con la coda dell’occhio ti intravedo sulla soglia. Hai in mano la
tazzina da caffè.
Scendo
le scale a precipizio, c’è molto buio e ci vedo offuscato. Colpa della tazzina.
Apro
il portone e la notte mi è addosso, fredda e sola e bellissima.
Dalla raccolta immaginaria Altri racconti
Dalla raccolta immaginaria Altri racconti
sabato 14 giugno 2014
23.12.04
pAura di
Morire, ma…
Ora
Resta
con Me.sabato 31 maggio 2014
Morire a Bucarest
À
George et Evelina.
Non sono mai stata a
Bucarest, almeno finora. Nel mio immaginario, quindi, è legata alle facce dei conoscenti che vengono da lì. A volte basta un nome per ricordare. O anche,
basta dare un nome a qualcosa che altrimenti non ci si sa spiegare.
Bucarest.
Lui è giovane e irruento,
con un sorriso contagioso, malizioso e ammiccante. Si appoggia allo stipite
della mia porta e mi chiama “Jolie”. Io porto un vestito verde e penso che è un
provolone, ma apprezzo il gioco di parole, mi fa sorridere. Lui ti fa spesso sorridere,
ci prova davvero con tutte e non riesce mai a stare fermo, però è buono,
schietto, senza fronzoli.
Lei è alta e giunonica,
veste abbastanza all’antica, è intelligente e parla un ottimo inglese,
trangugia tazzoni di caffè americano e fuma tanto che quando viene Jacopo a
trovarmi non riesce a dormire perché il cuscino è completamente impregnato di
fumo rancido. Allora apriamo la finestra e arieggiamo, ma non c’è niente da
fare. La stanza sa e saprà per sempre di sigarette rumene.
Lui sembra un gatto
selvatico, è un bel ragazzo e non ha paura di niente, ama le donne e non c’è
una volta che incontrandoti non dica: - Ça va? -. Se è un suo connazionale
invece dice: - Ce mai faci? -, lo dice più di tutti gli altri, ho finito per
impararlo anche io.
Lei litiga spesso con
Alex, hanno entrambi un carattere forte e sono caparbi come muli, quindi spesso
le serate di gruppo finiscono in battibecchi in inglese. Studia letteratura, ne
è molto appassionata. Porta un rossetto fucsia e una volta l’ho vista ballare,
sembrava una di quelle bambole tradizionali dell’est.
Sono forti, lui e lei,
in modi diversi.
Lui non è morto a
Bucarest. È morto a Dubai, sparato. Lavorava lì, le circostanze sono tuttora
poco chiare.
Muore giovane chi è
caro agli dei, dicevano. Lui rimane il ragazzo alto e abbronzato dal sorriso
selvatico e gli occhi socchiusi come i gatti, sfrontato, giovane e felice, per
sempre.
Lei ha deciso di
lasciare Bucarest, per sempre. Non un perché, almeno per noi lontani.
È successo l’anno
successivo, sempre in primavera. Una corda tesa dal soffitto sembra un punto
esclamativo, quando la sciogli e la appoggi in terra si arrotola e mostra tutte
le domande rimaste.
Un po’ come le mappe. Ogni punto di una mappa è un nodo da sciogliere. Quando ne guardo una e trovo Bucarest, vedo sorrisi, verde e fucsia, gatti,
sento inglese, rumeno e francese, annuso sigarette, ascolto musica balcanica.
E ho 26 anni. Per sempre.
E ho 26 anni. Per sempre.
Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi
sabato 3 maggio 2014
Nöel à Paris
A te ho dato le cose mie più belle.
Alda Merini
I campi elisi sotto Natale non sono qualcosa che si può prendere
sottogamba. Luci sfavillanti a destra e a sinistra puntate come riflettori,
odori e sapori e vapori, fiumana di persone, guance ghiacce al punto giusto da
percepire le punture di luci e voci e la sensazione di entrare all’opera, con
musiche trionfali e tutti che applaudono. Camminare è dura, quello che puoi
fare è sgusciare tra le persone abbandonandoti al flusso, un po’ come a un
concerto reggae. Se sei fortunato il fiume umano ti traghetta verso i banchetti
natalizi che presentano l’offerta gastronomica dell’intero pianeta e magari
riesci a trovare proprio quello che ti stuzzica di più. Nel mio caso, una madeleine. Riesco ad agguantarla sporgendo
il braccio dai cappotti altrui e felice mi lascio trascinare in trionfo dalla
folla che avanza verso la Tour, che è
agghindata come la regina della festa, alta e altera e lucente e spettacolare.
Mentre affondo i denti in quel morbido zucchero all’uovo, mi vengono in
mente due cose: Château Rouge e il vecchio Proust.
Château Rouge è il
quartiere nero che si trova subito sotto Montmartre, non a caso nel gradino più
basso rispetto alla collina degli artisti: Parigi è simbolica come nessun’altra
città al mondo. Mi chiedo cosa stiano facendo gli avventori dell’ostello-garage
di Château Rouge nel quale ho passato la notte: i due ragazzi
copulatori che hanno cullato il mio letto a castello e la banda di erasmi
allegri dalla parlata del nord. E anche gli abitanti del quartiere, marchiati a
fuoco nella mia testa: le parrucchiere specializzate in treccine e pettinature
africane, il contorsionista o forse disabile che cammina sulle mani e ti guarda
attraverso le gambe, gesto che spaventa tutti gli animali feroci e li fa
desistere dall’attaccarti. Magari sono qui, mescolati alla folla. Magari, ma credo
proprio di no. Parigi è una regina.
Proust è uno scrittore geniale e infelice, maniacale e simbolico quanto
Parigi. Ho letto che per lui esiste un modo per vincere il passare del tempo, quando
il suo protagonista mangia una madeleine
e gli viene in mente la sua infanzia e rivive il ricordo nel sapore. Io,
mangiando una madeleine, penso a
Proust, alla sua madeleine e al tempo:
il suo, il mio e il tuo. Sarebbe bello, penso, fissare il tempo nell’impasto di
un dolce. Tempo felice o infelice, non importa. Impastarlo, lasciarlo lievitare
e cuocere e poi dartelo, ancora caldo di forno. Ché se me lo tengo io, non
serve a niente.
Sospiro, emettendo una nuvola di vapore zuccherata all’uovo. È ora di
tornare all’ostello, intercettare le mie compagne di viaggio e scendere di
nuovo giù in basso.
Château Rouge e Proust
e Parigi insieme, troppo forse per un impasto solo.
sabato 19 aprile 2014
20.04.05
C’è una ragazza che cammina su una balaustra.
Cammina, in punta di piedi
Le braccia tese fuori
Lo sguardo estatico di un folle
O di un bimbo che brucia una carta.
Si muove a scatti, godendo
del terrore.
La chiamano, la esortano
A tornare
A non fare sciocchezze.
Che vuoi dimostrare?
Io non so se è scesa
O se alla fine è caduta
E le sirene ululanti l’hanno scortata
fin nelle pagine dei giornali.
Mi resta però il guizzo
Dei suoi capelli nell’aria.
E vorrei non essere creatura di terra.sabato 5 aprile 2014
Non ci sono gatti a Genova
Arrivo in serata con
l’adorato car sharing, moderno stivale delle sette leghe. Smonto in piazza
Dante, nella parte del centro ampia e alta, con palazzi e fontane che ricordano
la Torino sabauda, svettante e fiera come una regina. Ma non c’è regina senza
puttana, e Genova come Torino me lo conferma, con un sospiro di sollievo.
Se da piazza De
Ferrari (detta Defe) si scende, lasciandosi alle spalle la grande fontana, i
tanti motorini e nessuna bicicletta, si entra nella città vecchia, dentro i
caruggi. Le città di mare sono tutte sorelle e Genova ha l’andatura molleggiata
di Lisbona, tutta un saliscendi, e braccia e gambe come Venezia, vicoli alti e
stretti che qui si chiamano appunto caruggi e se ti perdi, tuo danno.
Scendere nei caruggi
la sera, per quanto pittoresco e carico di gente e vino al bancone della Lepre o delle
Vigne, non rende come di giorno. Come si diceva, Genova è una regina che tratta
alla pari i mercanti e cambia palazzo a seconda di come le gira, ma è anche una
puttana che osserva un orario di servizio diurno, in via della Maddalena.
Passeggiando in quella
zona intorno all’ora di pranzo, tra banchetti e negozi da ogni angolo del mondo, come in ogni porto che si rispetti, mi imbatto in un piccolo gruppo di prostitute,
in piedi ai lati del vicolo. Sono tutte latine, la divisione etnica degli
immigrati vale anche qui. E mi viene in mente Parigi, con il suo quartiere
tutto africano giusto ai piedi della scintillante Montmartre.
Passando sento un nordafricano
che dice qualcosa a una di loro, e lei risponde: -Non lavoro con te-. Proprio
come in Full Metal Jacket. Ma senza aspettare di vedere serpenti neri dell’Alabama,
passo oltre, perché alla fine l’occhio non può fermarsi troppo a lungo né sulla
corona della regina, né sul volto della puttana. Fanno troppa luce.
In venti minuti di
autobus si arriva al mare. La riviera ligure è bella da star male, non c’è da
stupirsi se qui sono state scritte così tante poesie e canzoni. Eugenio e Fabrizio,
tra i più grandi sempre e per sempre, però un aiutino il vostro luogo natìo ve
l’ha dato. Cerco nella sabbia sassosa ossi di seppia, non ne trovo. In compenso
noto che, pur essendo una città di mare, non c’è nemmeno un gatto in giro. Però
su una porta legnosa ai piedi di una creuza, la tipica strada acciottolata in pendenza, campeggia un cartello: “Smarrito Lucio, gatto tigrato”, con
foto e telefono del padrone.
Alla fine mi ritrovo di
nuovo nei caruggi, in un piccolo bar gestito da una coppia di vecchini scalda
cuore. Lui sorride e trasporta incessantemente la merce dentro e fuori dal bar,
lei prepara l’asinello, un liquore dolcissimo tipico di qui, che sembrerebbe
uno sciccoso martini se non fosse che viene servito da questa vecchia signora
dalle mani forti direttamente da un bottiglione millenario. Meno male.
Da fuori arrivano le
voci della gente che chiacchiera, asinello in mano. I gatti se li mangiano gli
africani, dice uno. Ah, ecco perché non ce ne sono, dice un altro. Ma va’,
esclama un terzo. Eh sì, belìn!!, insiste il primo. Ciao Lucio, penso io.
Genova ha due anime, la
regina e la puttana, il palazzo e la strada, o la ami o la odi, dicono i
genovesi.
sabato 15 marzo 2014
20.01.12
Baciare ragazzi di cui non m’importa.
Triste mare salato, succoso di pesci.
La luna è smorta, e io
Mi guardo in tralice, senza passione.
sabato 1 marzo 2014
01.05.13
La poesia dei
treni.
Ho un eco in gola.
Tremo lacrime di
luce.
sabato 22 febbraio 2014
Peugeot 206
E non voglio certo che tu sia
la mia più bella cosa mai successa
Afterhours
Il sedile posteriore è grigio e consunto, ruvido al contatto, liso
dall’uso. Il mio ginocchio che sfrega ritmicamente contro di lui sta iniziando
ad arrossarsi, finirà che dovrò girare con un cerotto, come quando pur di
mettere le scarpe che mi piacciono mi martorio la caviglia e devo coprirla con
una benda per nascondere la ferita. Ché poi se rimane il livido, è un casino.
Il finestrino posteriore si sta appannando, la condensa parte dagli angoli
e si diffonde sempre di più verso il centro, un po’ come quando stai per piangere,
parte tutto dagli angoli degli occhi e poi esplode al centro della faccia,
proprio sul muso.
L’umido filtra attraverso i finestrini, la nebbia della notte si fa spazio
dentro la macchina e viene risucchiata in gola dai respiri profondi e poi
rivomitata in gemiti. Odore di erba fradicia, di brina, di cani sciolti.
Mi tengo al sedile con tutte e due le mani e guardo il finestrino, ormai
quasi completamente appannato. Qualcuno ci aveva disegnato un cuore, quand’era
pulito, per fare il giochino del cuore fantasma che appare con la condensa,
come un biscotto che affiora in un mare di latte. Qualcosa mi colpisce dentro
al petto, fa ‘toc!’, forte e chiaro, lo sento. E sento la condensa che si
diffonde dagli angoli degli occhi come un mare di latte senza cuore.
Serro gli occhi, mi concentro sui colpi caldi dentro al mio corpo. Respiri
sempre più forti, l’aria della notte fino in fondo alla gola, la macchina
oscilla leggermente. Io tengo chiusi gli occhi, così il cuore non può apparire.
Ricaccio tutto in fondo alla gola. Mani addosso, unghie nella pelle, sempre
più forte, il ginocchio è in fiamme, sudore aspro, gemiti. Il cuore, la
condensa, dicevamo che se il cuore fosse riapparso non sarebbe scomparso mai
più, mai più, mai più.
Ancora più forte, ora. Se tengo gli occhi chiusi la condensa non arriva al
centro, il pianto muore negli angoli.
La macchina fa un’impennata estrema, scossoni, ancora di più, un grido! ...
Respiri fondi, carezze brusche. Riapro gli occhi piano. Il finestrino è
tutto bianco.
Ti lascio le mie scarpe bendate per ringraziarti.
Torno a casa sotto le stelle.
Dalla raccolta immaginaria Altri racconti
sabato 15 febbraio 2014
Venessia no xé mia
Ci sono posti fatti apposta per partire e tornare. Posti che scivolano, non stanno fermi, non si radicano, scorrono. Ti ci puoi specchiare dentro e sentirti meno solo.
Così pensavo camminando per le calli colorate. Colori chiari, in verità, come di pastello. Venezia a fine agosto è così, calda e umida e scolorita, come un acquerello stinto. O forse è la gente che la scolora, banchi di persone in correnti opposte che si sfiorano nel passaggio come delle gocce e resta solo questo grande mare dai colori indistinti.
Così pensavo, bestemmiando tra i denti contro il distributore di sigarette a Fondamenta Nuove, che inghiottiva e risputava la mia tessera sanitaria con insolenza. Inutile, non la prendeva, e dietro di me si stava formando un crocicchio variegato di persone col mio stesso bisogno.
«Lascia stare, faccio io» interviene una voce dall’accento indiano alle mie spalle, mentre io sferravo un inutile pugno alla macchina - certe volte vuoi solo fumare, punto.
Un braccio deciso si interpone tra me e il distributore, alla sua estremità una faccia sbrigativa ma gentile color ambra scura. Il ragazzo indiano inserisce con destrezza la sua, di tessera, e il distributore puntualmente la risputa.
«I to morti» mormora l’indiano sottovoce, continuando ad armeggiare con la macchina. Infila la tessera e quella esce di nuovo. Lui sospira, la rimette, viene riespulsa, si blocca, la rimette, entra.
«Oh» esclama sollevato «Cosa prendi tu?» mi fa, selezionando le sue sigarette.
«Camel» rispondo come sovrappensiero. In sette secondi mi ritrovo con sigarette, monete e tessera in mano.
«Certe volte ghe voe propio» mi dice l’indiano, sparendo rapidamente tra la gente, verso il barchino.
E dopo un attimo mi ritrovavo di nuovo sui ponti, tra le persone-pesci-gocce, con le mani piene di cose.
Le città d’acqua si muovono, non puoi fermarle. Sono bagnate, non puoi tenerle in mano. Però se parti e torni, sei delle loro. Se per caso ti viene da piangere, un po’d’acqua in più non fa niente.
Così pensavo, mentre i miei piedi mi avevano portato di nuovo a piazzale Roma, che quando lo vedi uscendo dalla stazione ti colpisce nel petto, al centro, dove ci sono le cose più importanti.
Il ragazzo indiano mi aveva lasciato tutto il resto, potevo prendermi il biglietto, un altro. Per partire e tornare.
Venezia non è mia, perché è di tutti quelli che partono e tornano. E, a volte, piangono.
Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi
Venezia, agosto 2011 |
sabato 8 febbraio 2014
Barcelona El Prat
E se l’amore che avevo non sa più il mio nome
E se l’amore che avevo non sa più il mio nome…
F. Mannoia
Il bus navetta viaggia nella notte verso l’aereoporto. A bordo, tre donne.
Io, la mujer dalle lunghe dita ruvide
e di fronte a lei la tedesca sessantenne dalla faccia di luna che mi sorride,
sorride. Tre generazioni. Tre lingue, tre corpi, tre donne sole.
Margarita -la mujer dalle lunghe
dita- è seccata con il cellulare o con chi sta all’altro capo del filo, in
Italia. «Esto no me gusta» dice, e la
tedesca che parla spagnolo annuisce, senza mai smettere di sorridere. A
Margarita non piacciono gli uomini che si fanno ospitare e scarrozzare per
tutta Malaga e poi partono e non rispondono più al cellulare, a Bonn o a Roma o
dove sia. Ha il viso bello e fiero e le dita ruvide e forti e qualcosa in fondo
agli occhi che ti pare di caderci dentro. La signora tedesca, che sembra una
nonna felice e profumata di biscotti, sorride tanto che sembra un gatto dagli
occhi a fessura. Quando scendiamo dal bus navetta dentro la notte fredda piena
di aerei mi strizza l’occhio. È bene in carne e caracolla dietro al suo
valigione a buon mercato, rossa come una mela, corti capelli bianchi, collane
di perline addosso. Margarita prende un carrello a testa per le valige.
Io continuo a pensare a quali storie le -ci- hanno portate qui. Margarita è
inarrestabile e autorevole, sa esattamente dove andare, io come al solito
nemmeno ricordo l’ora del decollo e non so dove sono i gate e dove sono io.
Margarita mi aspetta mentre cerco nei tabelloni il mio volo. Mi guarda e mi
sorride. «Io» dice «sono nata per aiutare gli altri.» La guardo negli occhi e
lo so, che è vero.
«Sai» mi dice, mentre la mia nonna tedesca spagnola si lascia cadere sulle
panchine dell’aeroporto e tira fuori frutta, pane, e un pezzo di torta
dolcissima tipica andalusa «Io sono morta due volte». Sorride di un sorriso
serio mentre lo dice, spingendo con decisione il carrello carico delle nostre
valige. «Due volte ho avuto un incidente e sono andata in coma. E due volte mi
sono risvegliata. Per questo so di essere qui per qualcosa. Aiutare gli altri»
mi dice, con il suo sorriso serio. E io lo so, che è vero. Con quel sorriso
serio, le cose sono vere per forza. Sembra quasi risplendere quando la guardo di
nuovo, o forse è il mio sguardo che splende, grazie al suo sorriso serio.
Ci sediamo tutte assieme, ognuna mette qualcosa in comune: la nonna Gerta già
l’ho detto, Margarita pane e jamon
serrano, io ho solo degli stupidi mandarini e metà baguette, perché ero
troppo stanca e incasinata per pensare e comprare oculatamente, ecco. Così ora condivido la
mia stupida frutta e pane, ma loro sembrano contente. Nonna Gerta sorride più
che mai, buca il soffitto grigio metallo dell’aereoporto.
Perché i soffitti degli aereoporti sono così alti? Lasciano troppo spazio ai pensieri, come se già non fosse abbastanza prendere un aereo e volare.
Perché i soffitti degli aereoporti sono così alti? Lasciano troppo spazio ai pensieri, come se già non fosse abbastanza prendere un aereo e volare.
Finalmente le domando che ci fa qui, col valigione, lei e i suoi capelli
bianchi sul viso rosso. Gerta sorride a più non posso. «Sono venuta a suonare»
mi dice «ora che ho la mia pensione da infermiera in Germania, sono venuta in
Spagna per suonare.» La sua faccia sembra una mela lucida, la nonna degli
gnomi. «Ma ora torno un po’ in Germania per stare col mio nipotino» dice, e
strizza l’occhio «Ho tirato su mia figlia da sola. Sai, io sono stata una hippy» dice, e sorride, Margarita
sorride, e sorrido anche io, senza rendermene conto.
Il cibo è finito e io devo andare al mio gate. Margarita mi abbraccia con
la sua stretta forte e calorosa. «Hai un’amica in Spagna» mi dice «se hai
bisogno di qualcosa, mi chiami e io arrivo.» E io lo so, che è vero.
Gerta mi dà due grossi baci sulle guance, da nonna contenta. «Sono stata
felice di conoscerti» mi dice, e io lo so che è vero.
Ma perché le donne straordinarie sono sempre sole?
Margarita mi accompagna per un pezzo, fino al gate. Poi mi guarda e mi
strizza l’occhio, come farebbe Gerta.
«Compartir es siempre mejor»,
dice.
E io lo so, che è vero.
rotonda del Triunfo Granada, ottobre 2012 |
sabato 1 febbraio 2014
02.01.13
1.
Il mio mascara sa di
pioggia.
Le copertine dei
dischi dentro la stanza
Che mi abbraccia.
E io
Grande la metà.
2.
Mi sono sbalzata dal nido.
Maglie viola fili d’erba verde
Lenzuola rosso sangue e azzurro di
bastimenti.
Due occhi mi bucano la schiena
Vieni a prendere freddo con me.
sabato 25 gennaio 2014
Siviglia con pipas
Siamo in un tipico bar del sud della Spagna, strapieno di gente vociante e
cosparso di pipas, termine
intraducibile per definire quella specie di legumi che si usa mangiare e sputare
poi le bucce a terra, lasciando un poetico corredo di scorze nerastre che
costellano il pavimento, il bancone, le sedie, i tavoli. Sembra molto più
brutto di quello che è in verità, cioè un manto ruvido marrone nerastro che fa
quasi Messico e nuvole (che voglia di piangere ho).
Naturalmente è impossibile liberarsene, delle pipas, e anzi ne localizzo una nell’incavo del tuo gomito mentre mi
parli animatamente e la tentazione sarebbe di scaraventarci tutti e due nelle
acque purificatrici del Guadalquivir. Invece ti ascolto, annuisco
semisorridendo e ti ascolto.
Mi parli di tuo padre che perse il lavoro quando eri piccolo, di tua madre
che è così contenta che ti sei laureato, sei il primo in famiglia! E ora che
sei lontano da casa, loro sono contenti lo stesso. Mi viene addosso una ragazza
bruna ubriaca e felice che grida qualcosa, così ci schiacciamo ancora di più
contro il bancone. Maledette pipas.
«Tu non ti rendi conto» mi dici, con tono forzatamente alto per sovrastare
quel colorato casino «Non pensi mai a quanto sei fortunata? Voglio dire, c’è
gente che si alza la mattina per fare sempre lo stesso lavoro di merda. Sempre la stessa cosa, avvitare
bulloni, archiviare pratiche, mettere il cazzo di tappo su un cazzo di
dentifricio» dici, e sbatti la mano sul bancone, senza violenza, così.
«Dovresti pensare di più agli altri» concludi, prendendo un generoso sorso di cerveza.
Io non so cosa dire, e non succede spesso, sinceramente. Ti guardo che
guardi oltre, aldilà delle teste dell’umanità da bar sivigliano, chissà dove
cazzo guardi. Magari guardi me in verità.
«Hai ragione» dico alla fine, guardando nel bicchiere «Hai ragione. Sono
una bambina viziata del cazzo. Ho letto troppi libri forse» aggiungo, e quasi
rido. Quasi, perché sui libri non c’è troppo da scherzare, è l’unica cosa seria
che ci è rimasta.
Tu non dici niente, ma hai l’aria contenta. La gente ti sbatte addosso,
come sempre in questi bar, ma non te ne importa. Non te ne importa e io sorrido
e vorrei che tu mi guardassi per vedermi sorriderti.
«Allora adesso dove andiamo?» ti dico, senza smettere di sorridere anche se
tu continui a guardare oltre.
Tu abbassi lo sguardo - io sono piccolina, devi abbassarlo per forza per
guardarmi. Mi sorridi anche tu, solo un poco, così.
«Hai una pipa nei capelli» mi
dici ridacchiando, e passi la tua mano grande nei miei capelli, così.
«Restiamo qui» mi dici, senza togliere la mano.
E a Siviglia
Le stelle suonavano forte come tanti sonagli.
Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi.
puente Triana, Sevilla novembre 2012 |
sabato 18 gennaio 2014
In nessun luogo
Bauman, quando ha
introdotto la tanto decantata definizione di “liquido” per il mondo in cui
viviamo, ha parlato anche dei non luoghi. Elementi ormai riconosciuti
nell’immaginario comune, i non luoghi riempiono il mondo, ne fanno parte,
collegano i luoghi “veri” tra di loro: metropolitane, autobus, treni. Non sei
da nessuna parte ma ci stai andando e ciò ti rilassa, forse per questo è così
facile addormentarsi in treno: è una pausa dalla vita vera, in cui comunque
rientrerai quando arrivi alla tua fermata. Questi non luoghi sono sì anonimi,
sì di passaggio, ma sicuri, protetti. Temporanei.
Essere in nessun luogo
è diverso. È una condizione paralizzata e paralizzante, come la rana che spicca
il salto e si blocca a metà, avvelenata, o come una ginnasta in spaccata
permanente. Non sei di passaggio, sei fermo.
Hai tanti luoghi dietro
e tanti davanti ma non puoi raggiungerli perché non sai dove sei. Nessun luogo
è lontano, d’accordo, e ogni grande viaggio comincia sempre con un primo passo,
benissimo, ma in ogni caso c’è bisogno di un punto di partenza. E se non sai
dove sei, il punto di partenza non c’è.
Tenere i piedi in due
luoghi può portare alla paralisi. Spesso si è costretti a farlo, specie ora,
specie noi, generazione di mezzo, imbottitura tra lo strato superiore di ultimi
superstiti di un sistema garantista che non c’è più e quello inferiore di
giovani rampanti che sono sul pezzo, abituati al caos e alla polverizzazione
delle certezze, e che di questo sanno nutrirsi.
Non ricordo come
finisse la storia di cui sopra, e proprio questo è il bello: l’immagine rimane
pietrificata, in nessun luogo. Essere a metà non è facile, anche se lo sei per
natura o se i tempi che corrono ti costringono a esserlo. Immagino che
l’incantesimo si sciolga scegliendo un luogo, uno. Probabilmente uno dei due
piedi farà male, forse lo si sarà dovuto strappare via con forza o forse si
sentirà semplicemente la mancanza del terreno che si pestava dall’altra parte.
Ma almeno si potrà ricominciare
a camminare.
sabato 11 gennaio 2014
Terra - Lisbon love story
La storia comincia nell’aereo, ma in verità era già nella mia pancia da
quando ho compiuto dieci anni e due occhi marroni romani hanno fatto volare il mio
stomaco nel cielo per la prima volta.
Tu sei seduto di fianco a me, tieni la mia mano nella tua mano, ruvida e
calda la tua, piccola e umida la mia.
Mani di bimba, seni di donna, occhi a metà.
Io ho paura di volare e nonostante questo ogni anno prendo almeno dieci
aerei. Quando c’eri tu era uno solo all’anno, ma avvolto in una coperta rossa.
Quando arriviamo all’aereoporto tu già mi ha perdonato per la mia rabbia
infantile, è colpa mia se ho sbagliato le coincidenze e ho dovuto pagare il
supplemento, io sono ancora arrabbiata e tu mi hai già perdonato.
Lisbona odora di vento, è una donna di mare dalle braccia grosse e il seno
caldo, sorride con un fazzoletto rosso terra nei capelli e ha un dente nero e
gli occhi che luccicano come il Tago. Camminiamo in salita tutto il tempo e io
mi innamoro ancora. Gatti dappertutto.
Tu mi chiami piccolina e sento di volerti bene come al mio papà. Ma poi mi
dai un bacio sulla torre di Belém e mi si sciolgono le gambe e tremo e ho caldo
e ti sento nella mia pancia.
E non amerò mai più così.
Il mio cuore ci sta tutto in un bicchierino di Ginja. Ce lo porta Dona
Conceiçao dopo il pranzo e io mi chiedo, Lisbona è lei? Ha la pelle olivastra e
cammina a stento per la sua mole, mescola spezzatini come fossero montagne e
bercia allegra ai poveri camerieri. Hanno tutti paura di lei e io rido e tu con
me. La Ginja è rossa e dolce e forte e sa di ciliegia, come il mio cuore.
In cima al Barrio Alto tu mi dici, vorrei vivere con te in una casetta
piccolina, e io mi immagino di seminare scatoloni per tutte le strade e poi
unirli e riempirli di cuscini e poi bucarli per passare dall’uno all’altro e
ogni mattina svegliarmi e uscire e vedere il mare con te.
Mi hai portato in mare una volta, io non c’ero ma tu come tutti i marinai non
porti le donne a bordo se non nel pensiero. Mi hai detto che mi pensavi mentre
navigavi, e da quel momento ogni mare mi parla di te.
Anche se sei un marinaio i tuoi occhi sono marroni come la terra. Mi viene
in mente mentre osservo le azulejas
sui muri, poi guardo te e mi sento a casa. Mi suona una musica nel cuore e non
è il fado. Tu mi guardi e mi stringi forte.
A Cabo da Roca il vento soffia violento e tu mi stringi di nuovo. E lo so che
siamo troppo giovani o forse sono solo io. È il punto più a ovest d’Europa,
questo. Dice il poeta, qui dove la terra finisce e il mare comincia…
Io so che la terra finirà ma il mare è per sempre.
Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi.
Cabo da Roca, Portogallo dicembre 2005 |
sabato 4 gennaio 2014
To Sarajevo with love and respect
Ogni volta che vado lontano mi avvicino un po' di più a me stessa. Come se mi togliessi uno strato di pelle, portato via dai chilometri macinati, i venti diversi, gli sguardi della gente del luogo.
Quando poi torno in un posto dove sono già stata, è come se lo leggessi più a fondo: non c'è solamente la curiosità famelica della prima volta, ma lo studio attento e commosso di qualcosa che hai già conosciuto, un po' come la sottile tenerezza per le piccole abitudini di un amante non più da una sola notte.
A Sarajevo, capitale dal cuore pulsante di battiti differenti, dove si respira storia in ogni angolo, mi danno il bentornato prendendo il volo i piccioni della omonima piazza, da cui partono come arterie le viuzze della città vecchia, dove canta il muezzin e i visi sono scuri e piccioni e turisti si confondono nello stesso cuore, quello vibrante del centro, da dove tutto sembra partire. Camminando lungo il fiume Miljacka, scalando le strade che portano dalla città vecchia a quella nuova, ho la costante sensazione di assistere a qualcosa di solenne, molto più che nelle grandi basiliche o perfino dentro Hagia Sofia ad Istanbul. La storia parla, esce dai buchi dei proiettili nei muri, dalle lapidi bianche a forma di pallottola, dai fori delle granate in terra che sono stati dipinti di rosso e perciò vengono chiamati "rose", dagli occhi di chi sì, c'era o c'è stato, nel più lungo assedio della storia bellica contemporanea. Una lotta fratricida, un paese crivellato, dove prima fedi diverse convivevano, come si vede dal disegno di alcune stampe o perfino del selciato di una piazza, in cui campeggiano quattro diversi simboli religiosi, uniti.
Ma l'emozione più forte, unita ad un vago senso di colpa da europea privilegiata e al disagio di sentirmi "turista" quando vorrei essere sempre e soltanto una viaggiatrice, mi aspetta al cosiddetto tunnel della speranza, che collegava la città all'aeroporto internazionale durante l'assedio. Ci arriviamo in taxi, sono solo 20 minuti dal centro perché Sergj, il taxista, ha appena sentito per radio dell'incidente di Schumacker e vuole evidentemente emularlo, ma io so dire solo "hvala" e "jiveli" e non riesco a farlo rallentare...
Dentro il tunnel, smantellato salvo una piccola parte visitabile, siamo stipati in una stanzetta ad assistere a un video sulla guerra, e mi trovo a fianco una coppia musulmana con una bambina in braccio che continua a sorriderci e a momenti mi fa piangere, smascherando il mio falso contegno da dura. Quando usciamo, seguendo la guida giovanissima (cosa tipica di Sarajevo, che amo molto), incontriamo un giovane papà con bimbo in spalla, che in un misto tra tedesco, inglese e bosniaco ci illustra sulla mappa della città le varie tappe dell'assedio. Quando gli chiediamo perché il resto del mondo non fosse intervenuto di più o diversamente, fa un amaro sorriso. -There is no oil here- dice, e questo basta. Penso al monumento agli aiuti internazionali posto dai sarajevesi vicino al Tito bar: una scultura a forma di scatola di carne proveniente dall'Italia, carne rancida, come l'interessamento europeo ad una guerra dietro l'angolo ma non abbastanza proficua.
Uscendo, lascio un messaggio sul guestbook:
to Sarajevo from Italy with love and respect.
"pigeons square", Sarajevo dicembre 2013 |
tunnel of hope |
monument for the helps |
"rose" |
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