sabato 23 agosto 2014

Scuola


Mio padre ha una storia comune e suo figlio è una nave pirata.

Francesco De Gregori


Mia madre oggi non riesce a sedersi a tavola per il pranzo. Si aggira per la cucina come un leone in gabbia, scuotendo la testa e passandosi le mani sulla fronte, con un'espressione dura tra le sue solite, dolci rughe, un'espressione da fiero animale ferito.
Nella mia famiglia le donne hanno mani piccole e ossute, sembrano fatte apposta per tenere la penna, o per agitarsi o torcersi o dare un pugno al tavolo, un pugnetto che pare la faccia di uno gnomo.
Mia madre andrà in pensione a 65 anni.
Mia madre ha iniziato a lavorare come professoressa a 26, di anni, in un valle sperduta del Trentino in cui la sera ci si poteva spostare solo con le catene, e forse era meglio non uscire per nulla, ma lei comunque era felice perché aveva spiccato il volo fuori dal nido della SUA mutter, ovvero la mia nonna trentina tenente di ferro.
Mia madre se n’era andata in Alto Adige a insegnare, prendeva dei soldini e se la cavava da sola, lei e la sua amica, pure lei insegnante, in quella casuccia in legno col fornello a gas e il boiler, e poi arrivava mio padre e la portava a sciare.
Mia madre, la guardavo dai miei pochi centimetri di altezza che diventavano sempre di più, e le chiedevo: - Mamma, ma cos'è questa foto che hai attaccata alla porta? -, e lei: - è un regalo dei miei studenti -, e mentre lo diceva sorrideva sottovoce, e sorridevano anche quei tre cialtroni ritratti nella foto, mentre posavano fuori dall’ospedale psichiatrico avvolti da immaginarie camice di forza.
Mia madre porta i compiti in classe dei suoi alunni a mia nonna, alla sua mutter, quando la va a trovare, perché li legga e dica quali vanno bene e quali no, intanto annuisce attenta e prende nota di tutto e poi a casa mette i voti che decide lei, ma la nonna è contenta lo stesso e forse la sera ripensa a quando era una maestra che biciclettava nelle valli per far lezione, marinando i sabati fascisti.
Mia madre la sento rispondere al telefono bisbigliando quando la chiama qualche suo alunno che é nei guai, e allora lei assume un tono rassicurante ed energico e calca le parole importanti e a me viene da ridere.
Mia madre non ne può più e fa correggere i compiti a me e poi mette i voti che decide lei, e io penso alla nonna e vorrei pedalare nel freddo degli anni Trenta con i libri nascosti sotto la divisa.
Mia madre ha una storia comune. Mia madre ha già dato.
Mia madre ha gli occhi stanchi nel viso indomito, alla fine si lascia cadere sulla sedia con un sospiro secco e sbatte la mano sul tavolo.
Io prendo il mio piccolo pugno e lo metto vicino al suo piccolo pugno.
Due facce di gnomo.

Dalla raccolta immaginaria Altri racconti



sabato 2 agosto 2014

Sale da aspetto

Quando avevo dieci anni e andavo in montagna, il recinto di legno mi carezzava la pancina, ruvido e solido, mi si opponeva come un ostacolo amico, fermo e sicuro. Oltre a lui i monti, le alpi viola e odore di resina e muschio e miele e prati color di ginocchio sbucciato. Lo strapiombo alpino non mi spaventava, perché c'era il recinto di legno scuro che mi sosteneva, rendeva le grida di mia madre solo un'altra melodia alpina. E l'occhio della montagna era sempre azzurro, grazie a quel marrone ruvido scuro.
La città lava via i colori, li rende opachi, banali, come un invisibile strato di cipria steso dalla mano pesante di una truccatrice.
- Cosa c'è in tv stasera? -, la melodia cittadina ha lo stesso suono di un tasto premuto. Un'intera tastiera scaricata nelle orecchie, senza richiesta. Non ci sono recinti, ma spazi che portano in altri spazi e altri spazi e altri spazi.
- Ma che ore sono, le sei e mezza? -, - Da me c'è un silenzio... -, - Devo andare adesso -.
Tasti che picchiettano, voci non melodiche, solitudine. Sale da aspetto.

Non c'è solitudine più grande di quando ci si guarda in uno specchio, diceva sempre mia madre, e io non capivo.
Il pavimento è grigio, due file di poltroncine dimesse ma dignitose si fronteggiano, intervallate da porte chiuse, e a sinistra c'è il banco dell'accettazione. Rispettare la distanza di sicurezza.
Le poltroncine vicino alla mia sono parzialmente occupate e non posso fare a meno di sbirciare le facce di chi le occupa. Parto prevenuto, scruto le figure come se già mi aspettassi di trovarci qualcosa di strano. Alla mia destra, ma saltando un posto, c'è un uomo di mezza età dal viso stanco e l'occhio immobile, fisso, pochi capelli e una forte pinguetudine che si nota quando si alza alla chiamata dell'infermiera.
- Vieni, Bruno -, lo chiamano per nome, sarà un'abitué. E io? Lo so, sto facendo la cosa giusta, sono più forte a starmene seduto qui che a girare tre volte il mondo a piedi. Però...
Di fronte a me un ragazzo, vestito come me, si guarda attorno tranquillamente e io sospiro tra me e me: ecco una persona che sembra normale, come me, eppure è qui. Allora forse... Ah no, lo chiamano, è un tirocinante. Ecco.
- Scusi -, sento una voce alla mia sinistra, accompagnata da una mano che timidamente ma con sicurezza mi tocca il braccio. La proprietaria della mano è una signora sui cinquanta, occhi marroni, pelle polverosa che sembra avere tanti strati. Ha uno sguardo buono e inerme, con una piccolissima luce di allarme in fondo agli occhi.
- Sa che lei... Posso darti del tu? Assomigli tanto a mio figlio - mi dice la signora, sempre pacata ma   sicura e mi guarda.
- Davvero? - dico, confuso - E... Come si chiama? -
- Giovanni - dice la signora, e sorride. Si sporge di nuovo verso di me, apre la bocca, poi si riscuote e la richiude. Si appoggia allo schienale e si rimette composta, lanciandomi un ultimo sorriso, piccolo e salterino come un passero. Arriva l’infermiera, io sono così confuso e preso dai miei pensieri che non la sento pronunciare il mio nome.
- Giovanni- mi sussurra la voce della signora, bassa e calda, come una tazza di tè - Tocca a te -.
La guardo che mi osserva mitemente, mi alzo.
Seguo l’infermiera e non sono più solo.

Dalla raccolta immaginaria Altri racconti