sabato 22 febbraio 2014

Peugeot 206

E non voglio certo che tu sia
la mia più bella cosa mai successa

Afterhours


Il sedile posteriore è grigio e consunto, ruvido al contatto, liso dall’uso. Il mio ginocchio che sfrega ritmicamente contro di lui sta iniziando ad arrossarsi, finirà che dovrò girare con un cerotto, come quando pur di mettere le scarpe che mi piacciono mi martorio la caviglia e devo coprirla con una benda per nascondere la ferita. Ché poi se rimane il livido, è un casino.
Il finestrino posteriore si sta appannando, la condensa parte dagli angoli e si diffonde sempre di più verso il centro, un po’ come quando stai per piangere, parte tutto dagli angoli degli occhi e poi esplode al centro della faccia, proprio sul muso.
L’umido filtra attraverso i finestrini, la nebbia della notte si fa spazio dentro la macchina e viene risucchiata in gola dai respiri profondi e poi rivomitata in gemiti. Odore di erba fradicia, di brina, di cani sciolti.
Mi tengo al sedile con tutte e due le mani e guardo il finestrino, ormai quasi completamente appannato. Qualcuno ci aveva disegnato un cuore, quand’era pulito, per fare il giochino del cuore fantasma che appare con la condensa, come un biscotto che affiora in un mare di latte. Qualcosa mi colpisce dentro al petto, fa ‘toc!’, forte e chiaro, lo sento. E sento la condensa che si diffonde dagli angoli degli occhi come un mare di latte senza cuore.
Serro gli occhi, mi concentro sui colpi caldi dentro al mio corpo. Respiri sempre più forti, l’aria della notte fino in fondo alla gola, la macchina oscilla leggermente. Io tengo chiusi gli occhi, così il cuore non può apparire.
Ricaccio tutto in fondo alla gola. Mani addosso, unghie nella pelle, sempre più forte, il ginocchio è in fiamme, sudore aspro, gemiti. Il cuore, la condensa, dicevamo che se il cuore fosse riapparso non sarebbe scomparso mai più, mai più, mai più.
Ancora più forte, ora. Se tengo gli occhi chiusi la condensa non arriva al centro, il pianto muore negli angoli.
La macchina fa un’impennata estrema, scossoni, ancora di più, un grido! ...
Respiri fondi, carezze brusche. Riapro gli occhi piano. Il finestrino è tutto bianco.
Ti lascio le mie scarpe bendate per ringraziarti.
Torno a casa sotto le stelle.


Dalla raccolta immaginaria Altri racconti




sabato 15 febbraio 2014

Venessia no xé mia

Ci sono posti fatti apposta per partire e tornare. Posti che scivolano, non stanno fermi, non si radicano, scorrono. Ti ci puoi specchiare dentro e sentirti meno solo.
Così pensavo camminando per le calli colorate. Colori chiari, in verità, come di pastello. Venezia a fine agosto è così, calda e umida e scolorita, come un acquerello stinto. O forse è la gente che la scolora, banchi di persone in correnti opposte che si sfiorano nel passaggio come delle gocce e resta solo questo grande mare dai colori indistinti.
Così pensavo, bestemmiando tra i denti contro il distributore di sigarette a Fondamenta Nuove, che inghiottiva e risputava la mia tessera sanitaria con insolenza. Inutile, non la prendeva, e dietro di me si stava formando un crocicchio variegato di persone col mio stesso bisogno.
«Lascia stare, faccio io» interviene una voce dall’accento indiano alle mie spalle, mentre io sferravo un inutile pugno alla macchina - certe volte vuoi solo fumare, punto.
Un braccio deciso si interpone tra me e il distributore, alla sua estremità una faccia sbrigativa ma gentile color ambra scura. Il ragazzo indiano inserisce con destrezza la sua, di tessera, e il distributore puntualmente la risputa.
«I to morti» mormora l’indiano sottovoce, continuando ad armeggiare con la macchina. Infila la tessera e quella esce di nuovo. Lui sospira, la rimette, viene riespulsa, si blocca, la rimette, entra.
«Oh» esclama sollevato «Cosa prendi tu?» mi fa, selezionando le sue sigarette.
«Camel» rispondo come sovrappensiero. In sette secondi mi ritrovo con sigarette, monete e tessera in mano.
«Certe volte ghe voe propio» mi dice l’indiano, sparendo rapidamente tra la gente, verso il barchino.
E dopo un attimo mi ritrovavo di nuovo sui ponti, tra le persone-pesci-gocce, con le mani piene di cose.
Le città d’acqua si muovono, non puoi fermarle. Sono bagnate, non puoi tenerle in mano. Però se parti e torni, sei delle loro. Se per caso ti viene da piangere, un po’d’acqua in più non fa niente.
Così pensavo, mentre i miei piedi mi avevano portato di nuovo a piazzale Roma, che quando lo vedi uscendo dalla stazione ti colpisce nel petto, al centro, dove ci sono le cose più importanti.
Il ragazzo indiano mi aveva lasciato tutto il resto, potevo prendermi il biglietto, un altro. Per partire e tornare.

Venezia non è mia, perché è di tutti quelli che partono e tornano. E, a volte, piangono.

Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi


Venezia, agosto 2011







sabato 8 febbraio 2014

Barcelona El Prat


E se l’amore che avevo non sa più il mio nome
E se l’amore che avevo non sa più il mio nome… 

F. Mannoia


Il bus navetta viaggia nella notte verso l’aereoporto. A bordo, tre donne. Io, la mujer dalle lunghe dita ruvide e di fronte a lei la tedesca sessantenne dalla faccia di luna che mi sorride, sorride. Tre generazioni. Tre lingue, tre corpi, tre donne sole.
Margarita -la mujer dalle lunghe dita- è seccata con il cellulare o con chi sta all’altro capo del filo, in Italia. «Esto no me gusta» dice, e la tedesca che parla spagnolo annuisce, senza mai smettere di sorridere. A Margarita non piacciono gli uomini che si fanno ospitare e scarrozzare per tutta Malaga e poi partono e non rispondono più al cellulare, a Bonn o a Roma o dove sia. Ha il viso bello e fiero e le dita ruvide e forti e qualcosa in fondo agli occhi che ti pare di caderci dentro. La signora tedesca, che sembra una nonna felice e profumata di biscotti, sorride tanto che sembra un gatto dagli occhi a fessura. Quando scendiamo dal bus navetta dentro la notte fredda piena di aerei mi strizza l’occhio. È bene in carne e caracolla dietro al suo valigione a buon mercato, rossa come una mela, corti capelli bianchi, collane di perline addosso. Margarita prende un carrello a testa per le valige.
Io continuo a pensare a quali storie le -ci- hanno portate qui. Margarita è inarrestabile e autorevole, sa esattamente dove andare, io come al solito nemmeno ricordo l’ora del decollo e non so dove sono i gate e dove sono io.
Margarita mi aspetta mentre cerco nei tabelloni il mio volo. Mi guarda e mi sorride. «Io» dice «sono nata per aiutare gli altri.» La guardo negli occhi e lo so, che è vero.
«Sai» mi dice, mentre la mia nonna tedesca spagnola si lascia cadere sulle panchine dell’aeroporto e tira fuori frutta, pane, e un pezzo di torta dolcissima tipica andalusa «Io sono morta due volte». Sorride di un sorriso serio mentre lo dice, spingendo con decisione il carrello carico delle nostre valige. «Due volte ho avuto un incidente e sono andata in coma. E due volte mi sono risvegliata. Per questo so di essere qui per qualcosa. Aiutare gli altri» mi dice, con il suo sorriso serio. E io lo so, che è vero. Con quel sorriso serio, le cose sono vere per forza. Sembra quasi risplendere quando la guardo di nuovo, o forse è il mio sguardo che splende, grazie al suo sorriso serio.
Ci sediamo tutte assieme, ognuna mette qualcosa in comune: la nonna Gerta già l’ho detto, Margarita pane e jamon serrano, io ho solo degli stupidi mandarini e metà baguette, perché ero troppo stanca e incasinata per pensare e comprare oculatamente, ecco. Così ora condivido la mia stupida frutta e pane, ma loro sembrano contente. Nonna Gerta sorride più che mai, buca il soffitto grigio metallo dell’aereoporto.
Perché i soffitti degli aereoporti sono così alti? Lasciano troppo spazio ai pensieri, come se già non fosse abbastanza prendere un aereo e volare.
Finalmente le domando che ci fa qui, col valigione, lei e i suoi capelli bianchi sul viso rosso. Gerta sorride a più non posso. «Sono venuta a suonare» mi dice «ora che ho la mia pensione da infermiera in Germania, sono venuta in Spagna per suonare.» La sua faccia sembra una mela lucida, la nonna degli gnomi. «Ma ora torno un po’ in Germania per stare col mio nipotino» dice, e strizza l’occhio «Ho tirato su mia figlia da sola. Sai, io sono stata una hippy» dice, e sorride, Margarita sorride, e sorrido anche io, senza rendermene conto.
Il cibo è finito e io devo andare al mio gate. Margarita mi abbraccia con la sua stretta forte e calorosa. «Hai un’amica in Spagna» mi dice «se hai bisogno di qualcosa, mi chiami e io arrivo.» E io lo so, che è vero.
Gerta mi dà due grossi baci sulle guance, da nonna contenta. «Sono stata felice di conoscerti» mi dice, e io lo so che è vero.
Ma perché le donne straordinarie sono sempre sole?

Margarita mi accompagna per un pezzo, fino al gate. Poi mi guarda e mi strizza l’occhio, come farebbe Gerta.
«Compartir es siempre mejor», dice.
E io lo so, che è vero.

Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi.


rotonda del Triunfo
Granada, ottobre 2012










sabato 1 febbraio 2014

02.01.13

1.

Il mio mascara sa di pioggia.
Le copertine dei dischi dentro la stanza
Che mi abbraccia.
E io
Grande la metà.

2.

Mi sono sbalzata dal nido.
Maglie viola fili d’erba verde
Lenzuola rosso sangue e azzurro di bastimenti.
Due occhi mi bucano la schiena
Vieni a prendere freddo con me.