martedì 11 aprile 2023

A millennial's pray (Una preghiera come tante)

La morte.
È quella cosa che ti ricorda che provi ancora dei sentimenti
Soffocati dalle incombenze assenze distanze resistenze violenze quotidiane.
È quella cosa che senti esistere anche se non c’è, come l’amore forse.
La morte esiste nonostante l’assenza che crea, anzi proprio in forza di essa. La morte è qualcosa che non c’è. Possiamo dirlo di altro al mondo?
E il tempo che sprechi passando il tempo non l’allontanerà, ma non puoi fare altro.
Mi è stata data una seconda possibilità, e io
Oltre al senso di colpa tutto cristiano-capitalista di non stare facendo niente con questa possibilità
Mi sento in colpa con il tempo che passa, per non venerarlo e curarlo come un bimbo
Mi sento in colpa per ogni ruga che nasce partorita dalla pelle che invecchia
(quindi vedi che si può generare anche invecchiando)
Mi sento in colpa per non dire grazie abbastanza forte o spesso
Mi sento in colpa per non trovare parole adeguate per esprimere l’inadeguatezza
Mi sento in colpa per non saper sognare come un bambino, o un bambino
Mi sento in colpa per non riuscire a perdonare veramente ciò da cui vengo
Mi sento in colpa perché volevo scrivere un apologo e invece è un peana.
E soprattutto
Quando poi arriva
Basterà tutta la consapevolezza
Ad assolvermi?

lunedì 19 dicembre 2022

Notte portoghese, cavallo bianco

Cammino rapida, quasi a scatti, ogni svolta è un’idea, ogni incrocio un pensiero fisso che si sbroglia. Le vie si dipanano come vene del braccio, il tuo, pulsano in maniera preoccupante, avrei anche potuto accorgermene. Quella che sto attraversando adesso è affiancata da un filare di alberi, ma le foglie sono stanche, come masticate dalla luce bieca della luna. In fondo alla strada si intravede una piccola chiesa, ce n’è una per ogni freguesia, anche se della toponomastica di Lisbona quello che più mi colpisce è la quantità di centri commerciali, praticamente uno ad ogni fermata della metro. Per arrivare all’ingresso del capolinea ne ho ancora, di strada, sempre sperando di riuscire a prendere l’ultima corsa, e sennò fodes tudo. Non sono uscita abbastanza in fretta da casa tua.
La cosa buffa è che, all’inizio, in quel condominio di Portela ci abitavo io, al piano inferiore, insieme a una ragazza spagnola che non ho mai visto e una estone convertita, il cui viso bianchissimo faceva tutt’uno col velo che non toglieva mai. Quando è stato altrettanto chiaro che portare alcol e uomini in casa avrebbe creato problemi me ne sono andata, ricordo che voltandomi dalla strada l’ho scorta dietro il vetro che mi guardava, anche se di solito evitava le finestre per non essere vista da qualche uomo all’esterno. Da quando sono tornata nel condominio perché al piano sopra ci abiti tu, non l’ho mai incontrata. Chissà se vive ancora lì, se ci ha mai sentiti urlare e se sì, dove ha collocato le grida nel suo universo di pensiero.
È un quartiere tranquillo, residenziale. Manco a dirlo c’è un piccolo centro commerciale - dovrei ritrovarmelo sulla destra tra poco -, un campo sportivo, il Pingo Doce. Nel negozio di animali ho preso due pesci rossi, siamo io e te, è stata un’impresa trasportarli di nascosto a casa tua, in combutta con i coinquilini. Probabilmente ora finiranno a nuotare nelle tubature del water, forse felici.
La tua rabbia è questo selciato che vuole essere calpestato senza cambiare strada, pietre portoghesi inscalfibili, inamovibili. Non c’è terreno erboso fino alla fermata, devo attraversare sassi e cemento come stanze della mente, porte ermetiche sulla torcia del cuore. Quando ti infuri perdi l’orientamento, sei una città di notte senza indicazioni.
Una volta ha chiamato tuo padre, ne intuivo la faccia sformata dallo schermo del telefono, la sua risata sapendo che ero lì con te sembrava un canto di upupe. Doveva essere molto fiero, dovevi essere molto fiero. Tra fiero e furia cambiano poche lettere, e la rabbia si trasmette col sangue se non si accende la luce al momento giusto. Mi ha cresciuto la TV, racconti, visualizzo uno schermo luminescente proiettato nella pellicola nera di occhi bambini.
Ora mi ritrovo al limitare del campo sportivo che confina con un grande parco, circondato da una rete. Il verde dell’erba è un’ombra scura estroflessa sul marciapiede, il campo sembra non finire mai. Mezzanotte meno cinque, la metro sta per partire. Accelero il passo, costeggio la rete. Ad un certo punto, una sagoma si staglia.
Forse è la suggestione di tutti i film e libri con protagoniste femminili che scappano di notte, forse è un esercizio che tutte facciamo, cosa succede se adesso vengo aggredita, sarò forte, urlerò, farò come la ragazza in quel racconto di Wallace che si salva dalla morte con parole d’amore per il suo stupratore. Se fossi tu ad assalirmi ti direi va tutto bene, non è colpa tua, però lasciami amore mio, dobbiamo lasciarci, chissà se ti calmeresti o al contrario ti gonfieresti ancora di più, bestia, bambino ferito, cammino forte fortissimo ora per superare l’ombra chiara che incombe, un flash abbagliante dal passato.
Anche il bianco della tua sclera risalta particolarmente quando ti agiti, sei incapace di contenerti come di perdonarti, da piccolo risultavi sempre primo nei test attitudinali e allora perché andavi male a scuola, nessuno capisce niente mi ripeti stringendo una canna immaginaria che non fumi più perché ti ha quasi ucciso, una piccola canna, forse la furia serve a riempire gli spazi vuoti della tua sagoma d’uomo. Penso alle sagome disegnate a terra sulle scene del crimine, mentre supero la rete e affronto l’ignoto.
Oltre le maglie della rete, un cavallo bianco mi osserva, fermo immobile nel cuore della notte. Sento la metro che parte sferragliando sotto di noi.

martedì 19 aprile 2022

Party

Like the Spanish city to me 
when we were kids
Dire Straits

 

È la notte dei fantasmi, fai attenzione, qualcuno nelle calles di Granada sta per lasciarci il cuore.

La festa è su più piani, primo calimocho e elettronica, secondo scambi di fluidi, terzo cocaina.

Le persone sono vomitate nelle strade, ingombre di ammassi che sembrano bolo, le sostanze girano come succhi gastrici. La serata inizia che è già quasi il giorno dopo, il botellon è la torcia del maratoneta nella notte chilometrica. Ci si perde, sono fatta, la tua mano unico gancio che mi tiene orientata, perno attorno a cui gira la mia testa sbronza. Al terzo piano non solo cocaina, dicono, si sentono nomi che sanno di giungla. Io sono vestita da Groucho, tu hai una ghirlanda fiorita in testa, direi che può andare. Saliamo, mi sale tutto.

Giù per le scale rovinano corpi, la musica è così alta che non so distinguere tra risa e urla. Il vino aranciato non mi interessa, le mie labbra sono già aspre abbastanza, si spaccano come zolle di terra arse, non riesco a chiuderle del tutto, è sempre così quando mi faccio. Passiamo davanti a uno specchio che restituisce l’immagine di un giardino, tu rosa, io veleno.

Al secondo piano trovo Viola, è vestita da pappagallo di pirata, si avvicina strepitando che è un costume di coppia ma non sa dove sia finito il suo Uncino. Io lo so, dov’è Uncino: piano tre.

Senza dovertelo dire mi sospingi verso l’alto, ci incastriamo alla perfezione solo quando non sono in me, sarà per questo che mi procuri sempre tu la droga. Ti amo, penso, poi me lo dimentico.

Al terzo piano c’è una festa indigena, Uncino stona tra le stoffe maculate e le teste pennute, la sua mano di ferro brilla nel buio come un presagio. Quando entri tu l’aria cambia colore, diventa soave e altissima, tutti si scostano perché i fiori sulla tua fronte sono buttafuori, buttafiori. Arrivo davanti a Uncino come per magia, invece sei tu che mi guidi. Uncino appena mi vede sorride e mi mostra tutti i suoi denti tristi: « Ayahuasca », dice.

Che bel nome Ayahuasca, se mi chiamassi così potremmo correre liberi nelle praterie o boschi o aiuole, sarei una dea dorata col capo sormontato di gemme e tu potresti specchiartici, sarei talmente importante che nessuno dotato di senno pronuncerebbe il mio nome invano, oppure andrebbe in deliquio, avrebbe visioni, s’innamorerebbe, t’innamoreresti anche tu. Sento la tua mano ancora intrecciata alla mia come un totem, mentre Uncino rovescia il capo all’indietro e inizia a rantolare.

Viola lo avvinghia, ha in bocca una canna screziata di cocaina, una zebra bianca e nera. Non l’abbiamo sentita arrivare, le pareti interne della mia bocca stanno crollando come la caverna del tesoro di Aladino. Uncino sta salmodiando, evoca mostri, sua madre fredda gelida e il biglietto del pullman in mano a quindici anni, sua sorella in clinica che non vede da quando, a Natale, suo padre ha rovesciato l’albero e poi se n’è andato, faceva caldo in modo innaturale, palme a dicembre, nemmeno il tempo può consolare se non si accorda allo stato d’animo, e poi sua nonna in una cassa e subito prima nelle fabbriche di jamon a insegnargli come salarlo, e poi Viola, Viola, pronunciando il suo nome talismanico si gira e la vede e rimane pietrificato dallo stupore. Li lasciamo così, lei che gli appoggia la canna tra le labbra dicendo non succede niente carinho, lui immobile che la fissa a occhi sbarrati, da qualche parte ho letto che Ayahuasca può uccidere attraverso la meraviglia, morte per stupore. Capitan Uncino statua di legno e il suo pappagallo invasato.

La tua mano mi porta al piano di sotto, ci sono delle stanze libere. Crollo su un letto e tu ti rovesci su di me come un fiume, ci spolpiamo fino a restare detriti, pelli appese tra le lenzuola. Il sonno è un coperchio implacabile sulle ciglia, nero e viola, ma non dura. Mi sveglio di colpo e cado dal letto, nuda.

Il pavimento è duro e freddo e io sono un mucchietto d’ossa. Non mi sono mai sentita così piccola. Sbircio in su, tu dormi senza vestiti, né freddo, né cuore. Mi alzo a sedere e le sostanze defluiscono da me di colpo, liquido amniotico al contrario, e mi sbagliavo, non mi sono mai sentita così piccola fino a ora, quando mi sollevo barcollando, ti copro col lenzuolo, infilo le mie cose e esco, nell’alba sporca e sobria, un piede davanti all’altro.

 

 

sabato 26 marzo 2022

Andrea

Hai le mani piccole, te le guardi e fai la faccia da alieno, sei buffo, piccolo buffo e rotto. Sembri un po’ Chicco, la tazzina de La bella e la bestia, piccola carina e crepata.
Mi dici, è molto importante che tu sia carina, io mi arrabbio un po’ perché non mi chiami mai bella e tu rispondi così, non so come reagire, incredibile che io me lo ricordi dopo tutto questo tempo.
Ricordo anche quando hai detto, mi scaldi qui, toccandoti il petto, mi chiedo quanto profonda potesse essere la caverna al suo interno se poi alla fine un po’ di calore ci arrivava, forse il drago dormiva.
Mi sveglio di notte, saranno le 4 ma non lo so di preciso perché in casa dei tuoi non avvisto orologi e il mio telefono chissà dov’è, sbalzato via insieme al letto, vago a piedi nudi tra muri non miei e ti trovo che giochi alla Play, ti giri sollecito con gli occhi incavati e dici ciao, ma no, torna a letto, sembra che canti, sembra sempre che canti, a volte rappi, a volte sei un oboe basso. Dovevamo sempre andarci, al karaoke, poi non hanno fatto la serata e nel frattempo non canti più.
Mi accompagni in giro per la città ad attaccare volantini per uno spettacolo teatrale, chissà come ti fa sentire, chissà se il contrappasso passa anche attraverso la carta, però ci vieni, non mi dici mai di no. Una volta addirittura mi recuperi in aeroporto portando la pizza, te l’ho chiesta io dopo una settimana di burro e patate in Estonia, scherzavo ma tu con gli scherzi fai sul serio, e mentre la mangio fredda tenendo il cartone sulle ginocchia sono felice di stare di fianco a te che guidi, però allo stesso tempo sento che non ci sei del tutto, guardi dritto verso la strada e un lago di mozzarella ci separa. L’unica volta che mi hai detto di no, io volevo che mi raggiungessi a un compleanno ma tu prima no poi sì poi non mi mandare faccine tristi, non sopporto le faccine tristiii, non capivo tutto questo accanimento contro le emoticon ma ora forse sì. Le maschere sono sempre a bocca in su e in giù, commedia e tragedia si fondono in uno stesso volto, solo non pensavo fosse proprio il tuo.
Quando vado in Sardegna per uno dei miei viaggi ti prendo una piccola maschera di cuoio artigianale, un amuleto, volevo fosse quello il senso ma magari invece era solo un altro chiodo piantato nel tuo costato. E sì che gli spettacoli migliori li ho visti con te, sul palco o insieme, ivi compreso quello show memorabile di rutti col tipo mascherato che ha fatto tremare il gazebo, ti ricordi? Com’è, smettere anche di avere ricordi?
Mi rendo conto che uno dei motivi per cui scrivo è questo, tutto passa e io sento il bisogno di fermarlo, marmorizzarlo su uno schermo, e poi quando ci torno è come aprire una scatola ed è tutto lì, suoni odori sensazioni. Com’è, smettere di sentire tutto, anche questo?
Quando sei andato al mare coi tuoi mi hai portato un sasso a forma di pinguino, ti somiglia, anche il fiore che ho preso al tuo funerale ti somiglia, lasci il segno di te dappertutto, in pochi possono farlo. Vorrei potere anche solo una volta metterci sul lettone a vedere un documentario sulle lontre che ti piacciono tanto, mi sa che anche questo l’ho assimilato da te, un altro uomo che ho amato dopo mi ha soprannominato Otter, Giuliotter nei momenti migliori.
Sono cosi tante le cose che mi evochi, e anche se la tua forma non la volevi più proiettata sui marciapiedi, si è incisa negli oggetti, nelle persone. Non credo che l’idea fosse essere dimenticato. Anche perché semplicemente, non è possibile.
Ciao Andrea.

venerdì 4 febbraio 2022

Cambiare

Mi guardo attorno e tutto è come l’ho sognato, anzi, meglio. I libri colorano gli spazi dove potrebbero acquattarsi le ombre, le piante succhiano luce e la riverberano sul pavimento in barbagli che mi fanno dire, questa non è la casa degli spiriti, è casa mia. Sono così abituata alla fantasia che la realtà mi prende alla sprovvista, è dura lasciare la vecchia pelle, diceva il pitone Kaa nelle storie di Mowgli. Perfino la paura può essere una scelta, se è familiare, e si può indossare il nero se veste meglio. 
Però sono stanca della paura, anche se mi ha tenuto per mano quando non c’era nient’altro e quindi grazie, paura. Ma ora apriamo le finestre, che entri la luce.

 

martedì 13 luglio 2021

Fobie

 
Matteo ha paura delle api. Non è proprio una cosa da eroi, però non può farci niente, quando in primavera i pollini gonfiano l'aria e ingolosiscono gli insetti lui per la paura si imbacucca tutto ed esce completamente coperto, anche se suda come una trota scongelata. Lo prendono in giro e lo chiamano la fava umana, che è un gioco di parole tra favo, cioè la casa delle api, e fava, che in toscano è uno di quegli insulti pe' sta' allegri. Non gli piace nemmeno essere toccato, in primavera, a Matteo, perché ha sempre paura che possa essere un'ape e quindi per non correre rischi evita ogni contatto.
Chiara ha paura dei germi, in particolare di ingoiarli e quindi tutto ciò che beve deve essere chiuso, sterilizzato ed etichettato. Niente acqua dalle fontanelle, che in primavera poi è buonissima perché ha il sapore delle nuvole che sgelano, niente birrette alla spina, che a mio nonno le aveva ordinate il dottore come antidepressivo. Quando non c'è la possibilità di bere da qualcosa di sigillato, Chiara ha imparato a dissetarsi inghiottendo minuscoli sorsi di saliva, il che la fa sembrare un pesce rosso molto concentrato. Non c'è sorgente di montagna o vino della casa che tenga: lei, se non è chiuso ermeticamente, non beve.
Si incontrano ogni giorno al parco, ma non lo sanno. Lei va a correre perché vuole essere magra e si porta appresso una bottiglietta d'acqua a chiusura ermetica come il cane degli alpini con la grappa al collo. Lui lo attraversa per andare a casa e sembra un mimo, senza nemmeno un lembo di pelle esposto tranne la faccia, che mostra solo perché una signora l'ha denunciato ai vigili come pervertito potenziale e loro hanno dovuto multarlo per esibizionismo.
Quando la coda di cavallo di lei frusta l'aria mentre corre si produce un lievissimo moto ventoso che arriva fino a lui e gli dà un brivido che non si spiega, allora si tira la zip della giacca su fino alla bocca. Contemporaneamente lei avverte le vibrazioni di calore prodotte dalla frizione dei vari strati di vestiti di lui e d'istinto stringe la bottiglietta d'acqua, tenuta fresca da una guaina termica. 
All'altezza del faggio rosso si incrociano, lei al trotto con entrambe le mani strette alla bottiglietta, lui scivolando silenzioso, mani in tasca e sguardo a zigzag per intercettare ronzii. Non sono importanti l'uno per l'altra, lei per lui è un frullo che allontana api potenziali, lui per lei è una guaina di forma umana, però ogni giorno si passano a fianco e senza saperlo si vedono più spesso di qualsiasi altra persona nella loro vita.
Il primo di maggio Chiara è di fretta, dopo la corsa deve andare a trovare la madre che non vede da tempo e la cosa la innervosisce, così non aggancia con la consueta dovizia la bottiglietta al marsupio da jogging. Matteo sta attraversando il parco, come sempre completamente vestito perché la stagione delle api è in corso e anzi in maggio sono ubriache di fiori e moleste peggio che mai. Quando Chiara arriva al faggio rosso la sua andatura è nervosa, al punto che per uno scatto di gamba la bottiglietta si sfila dal marsupio e cade a terra, rotolando nell'erba dritta tra i piedi di Matteo. Lui si blocca, non può fare altrimenti. In modo incerto raccoglie con la mano guantata la bottiglietta tutta sporca di terra e alza gli occhi verso di lei, che si è fermata a sua volta. Si guardano, e finalmente si vedono.
La bottiglietta è lurida di terra ma il ragazzo che l'ha raccolta porta i guanti, i germi non passano. Chiara si avvicina e Matteo sente un ronzio, si volta di scatto ma le api non ci sono. Lei si fa ancora più vicina e tende il braccio, lui fa per lanciarle la bottiglia ma poi la pulisce con il guanto e gliela mette in mano. Chiara lo guarda in viso, lui ha il cappuccio tirato fino alla fronte e dentro due occhi azzurri come il mare senza bottiglie.
In giugno Matteo cammina a testa scoperta e sente il cielo blu che gli entra nelle orecchie. Chiara ha comprato due ganci nuovi per il marsupio e si porta una bottiglietta in più, una con l'etichetta di un'ape e l'altra di una rosa. In luglio non si ricorda più quale delle due è la sua, così ricomincia a portarne una sola, da dividere. In agosto Matteo arriva al parco con una maglietta con sopra l'ape Maia. A settembre Chiara non trova più la sua bottiglietta, arriva al parco preoccupata e sotto il faggio rosso la trova, nelle mani senza guanti di Matteo. Lui le sorride e dice: « Ti amo. Proviamo? »

 

venerdì 30 aprile 2021

Il baio blu

Dirò oggi le vicende d'un baio                               
bello assai, di furia e passione pieno.
Altre virtù avea, e non solo un paio
dentro di sé, ma le teneva a freno
forse perché sentiva che nel saio
della sua mente nuoceva di meno
tenere le emozioni, anziché fuori
ma così si perdeva pioggia e fiori.
 
Il suo manto era vario, e cangiava
a seconda del sentir interiore:
se stava bene, era nero e brillava
mutava in blu se provava dolore.
Così dall'aspetto si disvelava
cosa portava il baio dentro al cuore
e la pelle mostrava finalmente
quello che non potea capir la gente.
 
Deluso e spaventato dal suo manto
rivelatore, solea rifugiarsi
nella tana, senza nessuno accanto.
In fondo non spiaceva crogiolarsi
nella tristezza, dolceamaro canto!
Così quando percepiva mutarsi
in blu, dentro sé stesso si chiudeva
e poco o niente sapere voleva.
 
Andava passeggiando per la zona
un'altra bestiolina complicata
pensava d'esser gatto, poverona
e invece aveva l'anima spaccata:
volendo essere un'unica persona
non s'era mai per davvero accettata.
Che bellezza se tutti gli animali
fossero sé stessi, anziché uguali!
 
Nitriva il baio solo nella tana
e presto lo sentì l'animaletta
quel verso le sembrava cosa strana
di lì lei si diresse in tutta fretta.
Infatti è cosa nota, ancorché umana
che insieme assai di più ci si diletta.
Immaginate allora il suo stupore
quando vide il baio cambiar colore!
 
"Cavalli blu non ne ho visto ancora mai"
pensò, e intanto il baio la guatava
si domandava se gli portasse guai
la bestiola che dritto lo fissava.
Infine lei parlò, e gli disse: «Sai,
è bello quel tuo blu», e lui restava
zitto a cercare dentro sé parole
fin lì celate alla luce del sole.
 
«Divento blu quando son triste», disse
il baio, e lei si emozionò tutta
«Io invece cerco solo cose fisse
in me, ma fallisco e mi sento brutta»
così rispose la bestiola, e scrisse
con la zampina sulla terra asciutta
il suo nome col punto di domanda
a chiedere: chi siamo, chi ci manda?
 
E mentre l'animala si scopriva
mostrando le sue pene e i suoi dolori
il baio assai commosso si sentiva
non più tutto era dentro, bensì fuori.
Poi quando un lacrimone fuoriusciva
mutava anche il colore dei suoi pori:
un poco appare bruno, un po' turchino
ma ciò che conta è restarsi vicino. 

lunedì 8 marzo 2021

Tupperware

Mio padre giovane era un cane selvatico dal pelo lustro e silenzioso, fatto per l'azione. Da piccola non me lo ricordo, la sua assenza è stata la grande presenza della mia infanzia. I miei disegni di bimba sono barbe castane che diventano strade perse in orizzonti di matita. Ricordo passi, porte che si aprono e chiudono, i momenti diventano rumori che cercano di riempire gli spazi.
Negli ultimi anni, però, è come se stesse diventando domestico, si aggira in casa mentre parlo con mia madre annusando intorno a noi e ascoltando, ogni tanto interviene con frasi che sono sassi piatti e lisci in uno stagno profondo. Quando si invecchia si ritorna bambini, mi aveva spiegato la nonna prima di contrarre l'Alzheimer, gli uomini quando invecchiano si inteneriscono, vogliono stare insieme, anche i più ruvidi.
Alla mia età, mio padre era un professore supplente che aspettava l'estate per solcare il mare e lanciarsi in viaggi lunghissimi da cui tornava puzzando di spezie e sedile d'auto, gli occhi verniciati di blu e la gola secca a forza di improvvisare lingue sconosciute, il telefono di casa esausto per tutte le chiamate senza risposta. Una volta non ha preso parte agli esami di riparazione perché in India non poteva ricevere comunicazioni, e quando si è presentato a scuola a settembre ha avuto solo una lavata di capo dal preside, e nemmeno troppo decisa. Poi ha cambiato lavoro, ha iniziato ad andare in ufficio e i viaggi si sono ristretti, insieme alle camicie di mia madre che le salivano sempre più sulla pancia tonda con me dentro. Dicono che sono stata concepita in Scozia, in mezzo a castelli solitari, e mi sembra molto probabile.
Mentre crescevo, i treni da pendolare hanno preso il posto dei biglietti di sola andata e delle auto a noleggio sporche di deserto, il vuoto tra gli scompartimenti tornava a casa con lui nelle tasche del suo completo e si depositava tra noi a cena, trasformandosi in silenzio.
Quando ho compiuto quindici anni, andava molto di moda tra le adolescenti il telefilm Beverly Hills, che ai miei faceva schifo perché incarnava tutto il vuoto catodico del consumismo americano. Non ero una grande fan, a dire il vero non lo guardavo nemmeno, ma un pomeriggio di ghisa tipicamente veneto sono tornata a casa da scuola, e incorniciato in camera mia c'era un poster di Luke Perry, star della serie e idolo delle ragazzine. Non ricordo la mia reazione, né di aver chiesto come ci fosse finito, ma sapevo che dietro c'era una mano invisibile, una specie di dio muto che parlava attraverso le cose. Poco tempo dopo ci ho attaccato sopra la foto di Che Guevara che legge Goethe, senza togliere la cornice con il poster dentro. Non ne abbiamo mai parlato ma a un certo punto la cornice è stata spostata, rimossa come le cose che non riusciamo a sostenere.
Poi sono stata io a partire e sparpagliarmi per il mondo, pagliuzza bruna nel blu. Nel Sahara ho raccolto in una borraccia la sabbia rossa che poi mi hanno fatto buttare, volevo metterla accanto a quella raccolta da lui in Tunisia durante il viaggio di nozze, ma alla fine è rimasta solo quella, sigillata a parlare di entrambe le nostre traversate del deserto.
Adesso che vivo sola, se vado a pranzo a casa non torno mai a mani vuote, mia madre prepara delle extraporzioni di cibo che mio padre stipa in un tupperware da portare via, e torno da me stringendo il vetro trasparente dalla pancia calda e farcita di colori. Ogni settimana riporto il contenitore vuoto e me ne vado con quello pieno, mio padre lo riempie con dovizia, con la cura dei lavori antichi. É solo una cosa, un oggetto che contiene, o meglio che può contenere, anche se nasce vuoto.

giovedì 28 gennaio 2021

Un momento da niente

La macchina è la mia, verde di stagno, non l'ho mai presa sul serio anche se mi porta in giro da almeno cinque anni. Ci sono cose che non si realizzano, tipo essere adulti, nemmeno quando paghiamo le bollette, facciamo il 730 da soli o ci prendiamo cura davvero di qualcuno. Per me è così, non è mai abbastanza, neppure gli occhi bucati di un adolescente che si bevono le mie parole bastano a legittimarmi, non nel profondo. Penso così mentre guidi, ecco questa è un'altra cosa, non ho mai fatto un incidente eppure preferisco sempre che guidi qualcun altro, è atavico, non credo abbia troppo a che fare con l'incomunicabilità di mio padre nelle sue lezioni di guida, anche se di sicuro non aiuta, allora piuttosto vado a sbattere contro un muro vero, almeno è più concreto del silenzio, se parlare senza ascoltare è silenzio. 
Sono stanca, ho il jetlag ma per nessun motivo avrei rinunciato al nostro viaggio, potrebbe essere l'ultimo ma preferisco non pensarci. Tanto mi arriverà la consapevolezza come un colpo alla nuca una volta arrivati in campeggio, tutte le tende montate vicine sono bandiere, steli in un prato, si stagliano al sole nella loro realtà, mentre la nostra starà su due giorni e poi addio. Non riesco a capire come posso ogni volta infilarmi in situazioni temporanee, transitorie, quando avevo vent'anni va bene ma adesso mi sembra di nuotare e non riuscire a prendere aria tra una bracciata e l'altra. 
Fa molto caldo, il sole di agosto opprime l'abitacolo, ho dormito gran parte del tragitto mentre tu spingevi il motore fino ai 130, eppure io dormivo. Il miracolo dell'addormentarsi, ecco un'altra delle mie cose, ho superato i 30 ma ancora non riesco - quasi mai - a semplicemente, naturalmente dormire. Antichissimo anche questo, pensavo che un giorno sarei cambiata, e invece. Quand'è esattamente che si diventa adulti che non mi ricordo?
« Ci fermiamo a riposare » dici tu, non è chiaro se come invito o domanda, esci dall'autostrada e ti infili agilmente dentro vie che non conosci, un cane fiducioso.
Io un po' ho fame e un po' mi scappa la pipì ma non lo dico, l'autogrill l'abbiamo passato. Tu giri tra spiazzi e divieti, alla fine ti fermi di fianco a un prato apparentemente libero. Smontiamo.
Non abbiamo mai più parlato di queste cose, chissà se le ricordi, chissà per te che hanno significato. Il pensiero della loro finitezza mi genera un male fisico, inconsolabile. É quel genere di dolore che si prova quando vorremmo tantissimo piangere, ma non riusciamo. Ricordo che a un altro uomo col tuo stesso nome avevo detto: « Tu hai paura delle fini », potenza del contrappasso. 
Ti seguo in silenzio mentre ti avvii verso il prato con i nostri asciugamani. Ci sono due alberi gemelli, le loro ombre proiettano sull'erba un'amaca di foglie scure. Tu stendi gli asciugamani vicini all'ombra, piazzi il tuo zaino a un'estremità e ti accomodi. Poi mi guardi, mi sorridi e dici: « Dai, vieni! ».
Ecco, io davvero non vorrei stendermi al tuo fianco, con la testa sulla tua spalla che si solleva e abbassa man mano che il respiro diventa sempre più lento e regolare perché ti stai, semplicemente e naturalmente, addormentando. Non perché non lo voglia tantissimo, e infatti lo faccio, ma perché so che questo momento da niente, noi distesi sotto a un albero con tu che dormi e io che vorrei ma nemmeno faccio finta perché va bene così, ecco questo momento con la mia faccia che diventa ruvida contro la tua maglia ma non te lo dico perché non ti voglio svegliare e fa niente se mi si blocca il collo perché tanto non mi sposto, questo momento finirà perché noi finiremo. E mi dico che non importa se posso ancora descrivere il sapore rosso della tua maglia, l'istantanea azzurra di un pomeriggio estivo in mezzo all'Italia, preciso come un addio, tutto questo non importa se poi finisce e ci separiamo. Credo che sia anche questa una delle mie cose, o forse è la cosa sotto a tutto il resto: esserci, e rimanere. So che sempre è una parola grande, ma vorrei potermi sentire piccola per dirla, e basta.

sabato 28 novembre 2020

Corpo

La mattina in cui ho capito cos'è un corpo era inizio novembre, il mese delle cose brutte. Ho sentito un rumore sordo che dal pavimento della cucina è arrivato fin dentro il mio sonno, svegliandomi di colpo. In un secondo ero giù dal letto, quello successivo già in cucina. Nella cornice della porta, mio padre chinato sul pavimento con un'espressione di sconcerto, le parole gli uscivano solo come definizioni, quasi avesse bisogno della grammatica per sostegno: « Sei a terra! É sangue! »
Il corpo di mia madre è esile e ossuto, l'ho sempre ritenuto leggero, ma non ho mai veramente conosciuto il suo peso fino a quel momento. A dire il vero, credo che fino ad allora non considerassi il suo corpo come esistente nello spazio, forma reale che si interfaccia con le cose e può modificarle ed essere modificata. Mia madre era una specie di entità primitiva, sostanziale. Vederla stesa sulla barella, dritta e secca come un ramo, ha catapultato l'urgenza del suo corpo dentro di me.
Una cosa simile è successa con la nonna, qualche anno dopo. Quando siamo entrati in obitorio, mio padre era in giacca e cravatta, la sua figura dolente ma solenne come sempre. Pensavo che finalmente l'avrei visto piangere, ma è un primato a cui non ho mai assistito. Ha guardato dentro la bara dove la nonna aspettava, dura e di carta allo stesso tempo, ha issato il braccio come una bandiera fino alla spalla di mio zio e ha detto: « Siamo orfani ».
Il corpo della nonna è sempre venuto insieme ai suoi gioielli e belletti, un sacrario di persona. Man mano che la malattia decorreva se ne spogliava sempre di più, ma per me la sua essenza è rimasta quella. Non avrei dovuto stupirmi poi tanto quando, durante un viaggio in Iran, visitando la sala del tesoro degli scià di Persia ho avvertito distintamente la sua presenza, quasi un decennio dopo la sua morte e in una terra che forse non aveva mai sentito nominare. É proprio vero che i posti sono persone.
Il mio, di corpo, è una cartina stiracchiata. Mi sembra che l'unica parte rimasta la stessa siano le mani, come diceva il mio grande amore dei vent'anni. Diceva: « É incredibile avere le stesse mani da quando sono nato », chissà se lo pensa ancora. Forse è per questo che mi tatuo, cerco di ancorarmi, ricordarmi, apponendo dei sigilli sulla carta della pelle.
Il mio corpo è il tonfo a terra di mia madre, la muta presenza di mio padre, la corteccia damascata della nonna. Il corpo, lo sento veramente solo quando ne peso la storia, e nel farlo, peso me.