domenica 12 ottobre 2014

Metro

6:55, la notte già strizza gli angoli degli occhi per aprirli al giorno che arriva, mi scrollo via il buio dalle spalle e scendo in fretta le scale della metropolitana.
Mi sento come Pinocchio nella pancia della balena, immersa in un plancton fatto di persone. Nessuno parla a quest'ora, ci si sfiora con lo sguardo, molti leggono il Metro, le ragazze sono tutte belle anche se hanno ancora la forma del cuscino sotto agli occhi, gli uomini sembrano tutti tuo padre o il tuo professore del liceo, le pelli sono di tutti i colori e si amalgamano alla perfezione come un dolce fatto in casa.
Una coppia di ciechi che vedo ogni mattina si avvicina alle panchine, si tengono per mano e con l'altra spingono avanti il bastone bianco, io mi chiedo ogni volta se quando si sono conosciuti ci vedevano oppure si sono innamorati al buio.
Un'altra coppia di ragazzini si stringe, si tocca, lui le tiene il viso tra le mani con gesti precisi, quel tipo di gesti che nessuno ti insegna, li conosci già. Lei non si vergogna, ridono, sono gli unici che parlano e il loro portoghese ha il suono della campanella di scuola.
Io aspetto di salire e so già che troverò un paio di facce che vedo sempre, non ci conosciamo ma ci vediamo ogni mattina, il treno ha sei vagoni eppure ci ritroviamo sempre nello stesso, e se per caso capita che non ci incontriamo mi dispiace e arrivo al lavoro più pesante.
Il treno è arrivato, quando le porte si aprono chi esce si mescola a chi entra, qua non c'è l'ordine nordico, è tutto un po' un casino, ma io mi sento al caldo e al sicuro.
Dopo un paio di fermate si libera un posticino, mi lascio cadere a fianco di una signora angolana coi capelli avvolti in uno scialle colorato e, anche se qui ho sempre la tentazione di appoggiare la testa sulla spalla dei miei vicini, la lascio andare all'indietro contro al vetro.
Chiudo gli occhi e sogno in un'altra lingua.

Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi.

Metro de Lisboa, estação Parque

sabato 23 agosto 2014

Scuola


Mio padre ha una storia comune e suo figlio è una nave pirata.

Francesco De Gregori


Mia madre oggi non riesce a sedersi a tavola per il pranzo. Si aggira per la cucina come un leone in gabbia, scuotendo la testa e passandosi le mani sulla fronte, con un'espressione dura tra le sue solite, dolci rughe, un'espressione da fiero animale ferito.
Nella mia famiglia le donne hanno mani piccole e ossute, sembrano fatte apposta per tenere la penna, o per agitarsi o torcersi o dare un pugno al tavolo, un pugnetto che pare la faccia di uno gnomo.
Mia madre andrà in pensione a 65 anni.
Mia madre ha iniziato a lavorare come professoressa a 26, di anni, in un valle sperduta del Trentino in cui la sera ci si poteva spostare solo con le catene, e forse era meglio non uscire per nulla, ma lei comunque era felice perché aveva spiccato il volo fuori dal nido della SUA mutter, ovvero la mia nonna trentina tenente di ferro.
Mia madre se n’era andata in Alto Adige a insegnare, prendeva dei soldini e se la cavava da sola, lei e la sua amica, pure lei insegnante, in quella casuccia in legno col fornello a gas e il boiler, e poi arrivava mio padre e la portava a sciare.
Mia madre, la guardavo dai miei pochi centimetri di altezza che diventavano sempre di più, e le chiedevo: - Mamma, ma cos'è questa foto che hai attaccata alla porta? -, e lei: - è un regalo dei miei studenti -, e mentre lo diceva sorrideva sottovoce, e sorridevano anche quei tre cialtroni ritratti nella foto, mentre posavano fuori dall’ospedale psichiatrico avvolti da immaginarie camice di forza.
Mia madre porta i compiti in classe dei suoi alunni a mia nonna, alla sua mutter, quando la va a trovare, perché li legga e dica quali vanno bene e quali no, intanto annuisce attenta e prende nota di tutto e poi a casa mette i voti che decide lei, ma la nonna è contenta lo stesso e forse la sera ripensa a quando era una maestra che biciclettava nelle valli per far lezione, marinando i sabati fascisti.
Mia madre la sento rispondere al telefono bisbigliando quando la chiama qualche suo alunno che é nei guai, e allora lei assume un tono rassicurante ed energico e calca le parole importanti e a me viene da ridere.
Mia madre non ne può più e fa correggere i compiti a me e poi mette i voti che decide lei, e io penso alla nonna e vorrei pedalare nel freddo degli anni Trenta con i libri nascosti sotto la divisa.
Mia madre ha una storia comune. Mia madre ha già dato.
Mia madre ha gli occhi stanchi nel viso indomito, alla fine si lascia cadere sulla sedia con un sospiro secco e sbatte la mano sul tavolo.
Io prendo il mio piccolo pugno e lo metto vicino al suo piccolo pugno.
Due facce di gnomo.

Dalla raccolta immaginaria Altri racconti



sabato 2 agosto 2014

Sale da aspetto

Quando avevo dieci anni e andavo in montagna, il recinto di legno mi carezzava la pancina, ruvido e solido, mi si opponeva come un ostacolo amico, fermo e sicuro. Oltre a lui i monti, le alpi viola e odore di resina e muschio e miele e prati color di ginocchio sbucciato. Lo strapiombo alpino non mi spaventava, perché c'era il recinto di legno scuro che mi sosteneva, rendeva le grida di mia madre solo un'altra melodia alpina. E l'occhio della montagna era sempre azzurro, grazie a quel marrone ruvido scuro.
La città lava via i colori, li rende opachi, banali, come un invisibile strato di cipria steso dalla mano pesante di una truccatrice.
- Cosa c'è in tv stasera? -, la melodia cittadina ha lo stesso suono di un tasto premuto. Un'intera tastiera scaricata nelle orecchie, senza richiesta. Non ci sono recinti, ma spazi che portano in altri spazi e altri spazi e altri spazi.
- Ma che ore sono, le sei e mezza? -, - Da me c'è un silenzio... -, - Devo andare adesso -.
Tasti che picchiettano, voci non melodiche, solitudine. Sale da aspetto.

Non c'è solitudine più grande di quando ci si guarda in uno specchio, diceva sempre mia madre, e io non capivo.
Il pavimento è grigio, due file di poltroncine dimesse ma dignitose si fronteggiano, intervallate da porte chiuse, e a sinistra c'è il banco dell'accettazione. Rispettare la distanza di sicurezza.
Le poltroncine vicino alla mia sono parzialmente occupate e non posso fare a meno di sbirciare le facce di chi le occupa. Parto prevenuto, scruto le figure come se già mi aspettassi di trovarci qualcosa di strano. Alla mia destra, ma saltando un posto, c'è un uomo di mezza età dal viso stanco e l'occhio immobile, fisso, pochi capelli e una forte pinguetudine che si nota quando si alza alla chiamata dell'infermiera.
- Vieni, Bruno -, lo chiamano per nome, sarà un'abitué. E io? Lo so, sto facendo la cosa giusta, sono più forte a starmene seduto qui che a girare tre volte il mondo a piedi. Però...
Di fronte a me un ragazzo, vestito come me, si guarda attorno tranquillamente e io sospiro tra me e me: ecco una persona che sembra normale, come me, eppure è qui. Allora forse... Ah no, lo chiamano, è un tirocinante. Ecco.
- Scusi -, sento una voce alla mia sinistra, accompagnata da una mano che timidamente ma con sicurezza mi tocca il braccio. La proprietaria della mano è una signora sui cinquanta, occhi marroni, pelle polverosa che sembra avere tanti strati. Ha uno sguardo buono e inerme, con una piccolissima luce di allarme in fondo agli occhi.
- Sa che lei... Posso darti del tu? Assomigli tanto a mio figlio - mi dice la signora, sempre pacata ma   sicura e mi guarda.
- Davvero? - dico, confuso - E... Come si chiama? -
- Giovanni - dice la signora, e sorride. Si sporge di nuovo verso di me, apre la bocca, poi si riscuote e la richiude. Si appoggia allo schienale e si rimette composta, lanciandomi un ultimo sorriso, piccolo e salterino come un passero. Arriva l’infermiera, io sono così confuso e preso dai miei pensieri che non la sento pronunciare il mio nome.
- Giovanni- mi sussurra la voce della signora, bassa e calda, come una tazza di tè - Tocca a te -.
La guardo che mi osserva mitemente, mi alzo.
Seguo l’infermiera e non sono più solo.

Dalla raccolta immaginaria Altri racconti

domenica 27 luglio 2014

La fine

Siamo andati al cinema, la mamma Federico il papà e io, ci sono solo quattro sale e niente scale mobili e operatori col cappellino e maxischermi e vasche di popcorn. Le poltrone sanno di rosso caldo e i nostri ci comprano le M&M'S, vietatisssime a casa!, che goduria. Le mie preferite sono quelle marroni perché mi sembra che ci sia più cioccolato.
Federico sbuffa, nel film ci sono "due che si amano" come si dice tra di noi a scuola e lui non ha voglia di vedere smancerie. Il film non parla mica di questo, d'amore, ma nella trama c'è comunque spazio per la storia d'amore, due che si vedono e si piacciono e si avvicinano e si allontanano e alla fine si baciano. Poco prima della fine, di solito, assieme al ritrovamento del tesoro o riunione della famiglia o sconfitta del cattivo, ci sono i due che si vedeva che si piacevano fin dai primi 5 minuti di film, che si baciano o si prendono per mano o si sposano o uno dei due muore (ma questi film con la morte alla fine i nostri non ci portano tanto a vederli).
Nel film di oggi i due protagonisti semplicemente si baciano, ma un bacio lunghissimo con sotto la musica di violini viole e violette e Federico fa: - Bleaaarg -, lo sentono due signore vicino a noi e borbottano e la mamma fa: - Sssss - ma solo un pochino, perché le scappa da ridere.
Fuori dal cinema c'è ancora un po' di neve per terra, tutta pesticciata dai passanti, e io e Federico ci mettiamo subito a fare le nuvole di vapore col fiato e lui prova a farne una coi rutti e mio papà gli dà uno scappellotto leggero e poi dice: - Andiamo a casa -. Per fortuna nel film c'erano anche gli americani e i nazisti che combattevano, sennò povero Federico.
A casa ci sono le frittelle avanzate dal giorno prima, è Carnevale e ogni scherzo vale! Federico si acquatta sotto al tavolo e appena il papà si siede gli agguanta una gamba ruggendo: - Sono l'alligatore nelle fogne! -. Il papà sospira, mi sa che preferiva uscire coi suoi amici visto che è domenica e domani prende il treno delle sette, poi però tira fuori Federico da sotto il tavolo e gli ficca in bocca una frittella, così sta zitto, e io rido.
Il mio papà ha un tatuaggio sul braccio un po' scolorito, perché prima di fare il geometra era un pirata e la mamma era già maestra e insegnava ai bambini delle tribù che incontravano quando sbarcavano sulle isole. Poi però si sono sposati e sono venuti a stare qui con noi.
Le mie frittelle preferite sono alla crema e mi inzucchero tutto il naso mangiandole. 
La mamma deve ancora correggere le verifiche per lunedì e continua a ripetere di non spargere lo zucchero sui fogli, allora il papà le dice perché cappero (cappero?) non le tiene sulla sua scrivania in camera e la mamma dice: - Dai, Franco! -, e morta lì.
Io penso che non lo so perché tutti i film finiscono quando i due che si amano si baciano o si sposano o muoiono, e non fanno vedere cosa c'è dopo. Penso che quella non è la vera fine. Anzi, non è la fine per niente.
Federico si ribella, sputa metà frittella sui fogli della mamma che urla, il papà dice: - Ecco, vedi? -, io rido, tutti a letto.
- Franco, non devi riprendermi davanti ai bambini! - fa la mamma con voce bassa e nervosa fuori dalla mia stanza, prima del bacio della buonanotte.
- Sì, ma anche tu diobono, metti a posto 'sti fogli no? - risponde il papà a voce ancora più bassa, la mamma scatta e fa: - Mmmmmm - come il rombo di un aereo e entra nella mia stanza sospirando.
Mi dà un bacio veloce che sa di poltrone rosse e zucchero e fogli, e del dopobarba di papà.
Io lo annuso forte sotto le coperte e chiudo gli occhi.

Dalla raccolta immaginaria Altri racconti

sabato 12 luglio 2014

Pullman da Berlino

I finestrini sono grandi abbastanza da restituire uno specchio grigio, duro, freddo. Tutto funziona, tutto è diritto e solido e funzionale. La pioggia si rovescia sul vetro ma non ha nulla di scrosciante e libero come è tipico dell’acqua. È acqua ordinata, questa.
I’m sticking with you, canta Nico. Mi risuona nelle orecchie dagli auricolari, certo era più suggestivo ascoltarla al Tacheles, circondata da sculture di ferro, ma tant’è. E poi parliamone, della musica che ti accompagna durante i viaggi: la porta dello specchio magico. Rivelazioni e brividi grazie a lei.
Il signore seduto di fianco a me russa un po’, con la bocca semiaperta. Ha un basco verdastro che gli cala sul faccione e, detto tra noi, non è un grande spettacolo. Mi ricorda un po’ un mio ex, cosa che mi fa sorridere. La pioggia batte.
Penso a te che mi dici -I don’t care- quando ti chiedo se vuoi che io resti a Berlino oppure no. Di tutte le cose che si possono dire, hai scelto questa. Forse non è così importante il posto in cui si è, o forse invece sì.
Penso al Tacheles con le pareti affrescate di colori neri e punk o sgargianti da copertina di disco anni ’80, le scale a chiocciola da condominio tossico, gli artisti confusi con la gente, la fotografia della suora con il piercing ai capezzoli.
I don’t care è peggio di un no, però è la verità. Che, detta in un sacrario di arte spontanea come un fiore che buca la neve tedesca, va rispettata più che mai. E poi così posso godermi i Velvet in corsa con la pioggia, un dolore delizioso. Quasi quasi ti ringrazio. Oppure no.

I’ll do anything for you
Anything you want me to
I’ll do anything for you
I’m sticking with you

Velvet Underground

Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi

Tacheles, Berlino, febbraio 2010



domenica 29 giugno 2014

La tazzina

Mi sveglio di colpo, il sonno alcolico delle cinque di mattina è molto leggero e il torpore passa quasi subito, lo sollevo come una pellicola trasparente.
Nella semioscurità localizzo vestiti, mensole ricolme di oggetti (le mie lenti a contatto in una tazzina da caffè), amplificatori, ciabatte sdrucite. La luce tenue dei lampioni filtra dalla finestra semichiusa, tutto tace.
Mi alzo, piano. Non occorre che ti svegli, ho già detto che non avrei dormito da te.
Prendo la tazzina e vado in bagno. Mettersi le lenti sugli occhi impiastricciati di trucco e cisposi per il sonno e il vino è un’impresa. Sono tutte secche, come se non bastasse. Allora faccio una cosa schifosa, a mali estremi: ci sputo dentro, un pochino, così le umidifico. Me l’ha insegnato Carlotta, una volta lei l’ha fatto su una mia lente che mi ero tolta per sbaglio, in una discoteca, nel bel mezzo della pista. Ha funzionato quella volta e funziona anche adesso.
Torno in camera, facendo sempre molto piano. Mi vesto con movimenti impercettibili, o almeno così credo, perché sento la tua voce piena di sonno che mi chiede dove vado.
A casa, ma dai dormi qui, no dai vado a casa, tranquillo, preferisco, ma guarda che davvero non c’è problema, lo so lo so ma preferisco.
Sono pronta, ho raccolto tutte le mie cose e indossato tutti i vestiti (a parte il reggiseno, che metto in borsa. Poi me lo dimentico e il giorno dopo non lo trovo e poi apro la borsa ed eccolo, fuori contesto, come un regalo bizzarro fatto da un amico che non ti conosce bene).
Sguscio fuori dalla tua camera, individuo giacca sciarpa cappello guanti e li indosso alla rinfusa. Sento che ti alzi e mi raggiungi, giusto in tempo per vedermi aprire la porta di casa.
Ma dai sei sicura, sì dai vado, tranquillo, buonanotte, buonanotte. Mi fiondo giù dalle scale, con la coda dell’occhio ti intravedo sulla soglia. Hai in mano la tazzina da caffè.
Scendo le scale a precipizio, c’è molto buio e ci vedo offuscato. Colpa della tazzina.
Apro il portone e la notte mi è addosso, fredda e sola e bellissima.


Dalla raccolta immaginaria Altri racconti

sabato 14 giugno 2014

23.12.04

      pAura di
        Morire, ma…
        Ora
        Resta
  con Me.

sabato 31 maggio 2014

Morire a Bucarest


À George et Evelina.


Non sono mai stata a Bucarest, almeno finora. Nel mio immaginario, quindi, è legata alle facce dei conoscenti che vengono da lì. A volte basta un nome per ricordare. O anche, basta dare un nome a qualcosa che altrimenti non ci si sa spiegare.
Bucarest.
Lui è giovane e irruento, con un sorriso contagioso, malizioso e ammiccante. Si appoggia allo stipite della mia porta e mi chiama “Jolie”. Io porto un vestito verde e penso che è un provolone, ma apprezzo il gioco di parole, mi fa sorridere. Lui ti fa spesso sorridere, ci prova davvero con tutte e non riesce mai a stare fermo, però è buono, schietto, senza fronzoli.
Lei è alta e giunonica, veste abbastanza all’antica, è intelligente e parla un ottimo inglese, trangugia tazzoni di caffè americano e fuma tanto che quando viene Jacopo a trovarmi non riesce a dormire perché il cuscino è completamente impregnato di fumo rancido. Allora apriamo la finestra e arieggiamo, ma non c’è niente da fare. La stanza sa e saprà per sempre di sigarette rumene.
Lui sembra un gatto selvatico, è un bel ragazzo e non ha paura di niente, ama le donne e non c’è una volta che incontrandoti non dica: - Ça va? -. Se è un suo connazionale invece dice: - Ce mai faci? -, lo dice più di tutti gli altri, ho finito per impararlo anche io.
Lei litiga spesso con Alex, hanno entrambi un carattere forte e sono caparbi come muli, quindi spesso le serate di gruppo finiscono in battibecchi in inglese. Studia letteratura, ne è molto appassionata. Porta un rossetto fucsia e una volta l’ho vista ballare, sembrava una di quelle bambole tradizionali dell’est.
Sono forti, lui e lei, in modi diversi.
Lui non è morto a Bucarest. È morto a Dubai, sparato. Lavorava lì, le circostanze sono tuttora poco chiare.
Muore giovane chi è caro agli dei, dicevano. Lui rimane il ragazzo alto e abbronzato dal sorriso selvatico e gli occhi socchiusi come i gatti, sfrontato, giovane e felice, per sempre.
Lei ha deciso di lasciare Bucarest, per sempre. Non un perché, almeno per noi lontani.
È successo l’anno successivo, sempre in primavera. Una corda tesa dal soffitto sembra un punto esclamativo, quando la sciogli e la appoggi in terra si arrotola e mostra tutte le domande rimaste.
Un po’ come le mappe. Ogni punto di una mappa è un nodo da sciogliere. Quando ne guardo una e trovo Bucarest, vedo sorrisi, verde e fucsia, gatti, sento inglese, rumeno e francese, annuso sigarette, ascolto musica balcanica. 
E ho 26 anni. Per sempre.


Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi

sabato 3 maggio 2014

Nöel à Paris


A te ho dato le cose mie più belle.

Alda Merini
                               

I campi elisi sotto Natale non sono qualcosa che si può prendere sottogamba. Luci sfavillanti a destra e a sinistra puntate come riflettori, odori e sapori e vapori, fiumana di persone, guance ghiacce al punto giusto da percepire le punture di luci e voci e la sensazione di entrare all’opera, con musiche trionfali e tutti che applaudono. Camminare è dura, quello che puoi fare è sgusciare tra le persone abbandonandoti al flusso, un po’ come a un concerto reggae. Se sei fortunato il fiume umano ti traghetta verso i banchetti natalizi che presentano l’offerta gastronomica dell’intero pianeta e magari riesci a trovare proprio quello che ti stuzzica di più. Nel mio caso, una madeleine. Riesco ad agguantarla sporgendo il braccio dai cappotti altrui e felice mi lascio trascinare in trionfo dalla folla che avanza verso la Tour, che è agghindata come la regina della festa, alta e altera e lucente e spettacolare.
Mentre affondo i denti in quel morbido zucchero all’uovo, mi vengono in mente due cose: Château Rouge e il vecchio Proust.
Château Rouge è il quartiere nero che si trova subito sotto Montmartre, non a caso nel gradino più basso rispetto alla collina degli artisti: Parigi è simbolica come nessun’altra città al mondo. Mi chiedo cosa stiano facendo gli avventori dell’ostello-garage di Château Rouge nel quale ho passato la notte: i due ragazzi copulatori che hanno cullato il mio letto a castello e la banda di erasmi allegri dalla parlata del nord. E anche gli abitanti del quartiere, marchiati a fuoco nella mia testa: le parrucchiere specializzate in treccine e pettinature africane, il contorsionista o forse disabile che cammina sulle mani e ti guarda attraverso le gambe, gesto che spaventa tutti gli animali feroci e li fa desistere dall’attaccarti. Magari sono qui, mescolati alla folla. Magari, ma credo proprio di no. Parigi è una regina.
Proust è uno scrittore geniale e infelice, maniacale e simbolico quanto Parigi. Ho letto che per lui esiste un modo per vincere il passare del tempo, quando il suo protagonista mangia una madeleine e gli viene in mente la sua infanzia e rivive il ricordo nel sapore. Io, mangiando una madeleine, penso a Proust, alla sua madeleine e al tempo: il suo, il mio e il tuo. Sarebbe bello, penso, fissare il tempo nell’impasto di un dolce. Tempo felice o infelice, non importa. Impastarlo, lasciarlo lievitare e cuocere e poi dartelo, ancora caldo di forno. Ché se me lo tengo io, non serve a niente.
Sospiro, emettendo una nuvola di vapore zuccherata all’uovo. È ora di tornare all’ostello, intercettare le mie compagne di viaggio e scendere di nuovo giù in basso.
Château Rouge e Proust e Parigi insieme, troppo forse per un impasto solo.
Però vorrei lo stesso impastarlo e darlo a te.

Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi

Parigi, dicembre 2009

sabato 19 aprile 2014

20.04.05

C’è una ragazza che cammina su una balaustra.
Cammina, in punta di piedi
Le braccia tese fuori
Lo sguardo estatico di un folle
O di un bimbo che brucia una carta.
Si muove a scatti, godendo
del terrore.
La chiamano, la esortano
A tornare
A non fare sciocchezze.
Che vuoi dimostrare?
Io non so se è scesa
O se alla fine è caduta
E le sirene ululanti l’hanno scortata
fin nelle pagine dei giornali.
Mi resta però il guizzo
Dei suoi capelli nell’aria.
E vorrei non essere creatura di terra.

sabato 5 aprile 2014

Non ci sono gatti a Genova

Arrivo in serata con l’adorato car sharing, moderno stivale delle sette leghe. Smonto in piazza Dante, nella parte del centro ampia e alta, con palazzi e fontane che ricordano la Torino sabauda, svettante e fiera come una regina. Ma non c’è regina senza puttana, e Genova come Torino me lo conferma, con un sospiro di sollievo.
Se da piazza De Ferrari (detta Defe) si scende, lasciandosi alle spalle la grande fontana, i tanti motorini e nessuna bicicletta, si entra nella città vecchia, dentro i caruggi. Le città di mare sono tutte sorelle e Genova ha l’andatura molleggiata di Lisbona, tutta un saliscendi, e braccia e gambe come Venezia, vicoli alti e stretti che qui si chiamano appunto caruggi e se ti perdi, tuo danno.
Scendere nei caruggi la sera, per quanto pittoresco e carico di gente e vino al bancone della Lepre o delle Vigne, non rende come di giorno. Come si diceva, Genova è una regina che tratta alla pari i mercanti e cambia palazzo a seconda di come le gira, ma è anche una puttana che osserva un orario di servizio diurno, in via della Maddalena.
Passeggiando in quella zona intorno all’ora di pranzo, tra banchetti e negozi da ogni angolo del mondo, come in ogni porto che si rispetti, mi imbatto in un piccolo gruppo di prostitute, in piedi ai lati del vicolo. Sono tutte latine, la divisione etnica degli immigrati vale anche qui. E mi viene in mente Parigi, con il suo quartiere tutto africano giusto ai piedi della scintillante Montmartre.
Passando sento un nordafricano che dice qualcosa a una di loro, e lei risponde: -Non lavoro con te-. Proprio come in Full Metal Jacket. Ma senza aspettare di vedere serpenti neri dell’Alabama, passo oltre, perché alla fine l’occhio non può fermarsi troppo a lungo né sulla corona della regina, né sul volto della puttana. Fanno troppa luce.
In venti minuti di autobus si arriva al mare. La riviera ligure è bella da star male, non c’è da stupirsi se qui sono state scritte così tante poesie e canzoni. Eugenio e Fabrizio, tra i più grandi sempre e per sempre, però un aiutino il vostro luogo natìo ve l’ha dato. Cerco nella sabbia sassosa ossi di seppia, non ne trovo. In compenso noto che, pur essendo una città di mare, non c’è nemmeno un gatto in giro. Però su una porta legnosa ai piedi di una creuza, la tipica strada acciottolata in pendenza, campeggia un cartello: “Smarrito Lucio, gatto tigrato”, con foto e telefono del padrone.
Alla fine mi ritrovo di nuovo nei caruggi, in un piccolo bar gestito da una coppia di vecchini scalda cuore. Lui sorride e trasporta incessantemente la merce dentro e fuori dal bar, lei prepara l’asinello, un liquore dolcissimo tipico di qui, che sembrerebbe uno sciccoso martini se non fosse che viene servito da questa vecchia signora dalle mani forti direttamente da un bottiglione millenario. Meno male.
Da fuori arrivano le voci della gente che chiacchiera, asinello in mano. I gatti se li mangiano gli africani, dice uno. Ah, ecco perché non ce ne sono, dice un altro. Ma va’, esclama un terzo. Eh sì, belìn!!, insiste il primo. Ciao Lucio, penso io.
Genova ha due anime, la regina e la puttana, il palazzo e la strada, o la ami o la odi, dicono i genovesi.
E chissà dove vanno i gatti.


creuza, Genova, aprile 2014
caruggi, Genova, aprile 2014



sabato 15 marzo 2014

20.01.12

Baciare ragazzi di cui non m’importa.
Triste mare salato, succoso di pesci.
La luna è smorta, e io
Mi guardo in tralice, senza passione.

sabato 1 marzo 2014

sabato 22 febbraio 2014

Peugeot 206

E non voglio certo che tu sia
la mia più bella cosa mai successa

Afterhours


Il sedile posteriore è grigio e consunto, ruvido al contatto, liso dall’uso. Il mio ginocchio che sfrega ritmicamente contro di lui sta iniziando ad arrossarsi, finirà che dovrò girare con un cerotto, come quando pur di mettere le scarpe che mi piacciono mi martorio la caviglia e devo coprirla con una benda per nascondere la ferita. Ché poi se rimane il livido, è un casino.
Il finestrino posteriore si sta appannando, la condensa parte dagli angoli e si diffonde sempre di più verso il centro, un po’ come quando stai per piangere, parte tutto dagli angoli degli occhi e poi esplode al centro della faccia, proprio sul muso.
L’umido filtra attraverso i finestrini, la nebbia della notte si fa spazio dentro la macchina e viene risucchiata in gola dai respiri profondi e poi rivomitata in gemiti. Odore di erba fradicia, di brina, di cani sciolti.
Mi tengo al sedile con tutte e due le mani e guardo il finestrino, ormai quasi completamente appannato. Qualcuno ci aveva disegnato un cuore, quand’era pulito, per fare il giochino del cuore fantasma che appare con la condensa, come un biscotto che affiora in un mare di latte. Qualcosa mi colpisce dentro al petto, fa ‘toc!’, forte e chiaro, lo sento. E sento la condensa che si diffonde dagli angoli degli occhi come un mare di latte senza cuore.
Serro gli occhi, mi concentro sui colpi caldi dentro al mio corpo. Respiri sempre più forti, l’aria della notte fino in fondo alla gola, la macchina oscilla leggermente. Io tengo chiusi gli occhi, così il cuore non può apparire.
Ricaccio tutto in fondo alla gola. Mani addosso, unghie nella pelle, sempre più forte, il ginocchio è in fiamme, sudore aspro, gemiti. Il cuore, la condensa, dicevamo che se il cuore fosse riapparso non sarebbe scomparso mai più, mai più, mai più.
Ancora più forte, ora. Se tengo gli occhi chiusi la condensa non arriva al centro, il pianto muore negli angoli.
La macchina fa un’impennata estrema, scossoni, ancora di più, un grido! ...
Respiri fondi, carezze brusche. Riapro gli occhi piano. Il finestrino è tutto bianco.
Ti lascio le mie scarpe bendate per ringraziarti.
Torno a casa sotto le stelle.


Dalla raccolta immaginaria Altri racconti




sabato 15 febbraio 2014

Venessia no xé mia

Ci sono posti fatti apposta per partire e tornare. Posti che scivolano, non stanno fermi, non si radicano, scorrono. Ti ci puoi specchiare dentro e sentirti meno solo.
Così pensavo camminando per le calli colorate. Colori chiari, in verità, come di pastello. Venezia a fine agosto è così, calda e umida e scolorita, come un acquerello stinto. O forse è la gente che la scolora, banchi di persone in correnti opposte che si sfiorano nel passaggio come delle gocce e resta solo questo grande mare dai colori indistinti.
Così pensavo, bestemmiando tra i denti contro il distributore di sigarette a Fondamenta Nuove, che inghiottiva e risputava la mia tessera sanitaria con insolenza. Inutile, non la prendeva, e dietro di me si stava formando un crocicchio variegato di persone col mio stesso bisogno.
«Lascia stare, faccio io» interviene una voce dall’accento indiano alle mie spalle, mentre io sferravo un inutile pugno alla macchina - certe volte vuoi solo fumare, punto.
Un braccio deciso si interpone tra me e il distributore, alla sua estremità una faccia sbrigativa ma gentile color ambra scura. Il ragazzo indiano inserisce con destrezza la sua, di tessera, e il distributore puntualmente la risputa.
«I to morti» mormora l’indiano sottovoce, continuando ad armeggiare con la macchina. Infila la tessera e quella esce di nuovo. Lui sospira, la rimette, viene riespulsa, si blocca, la rimette, entra.
«Oh» esclama sollevato «Cosa prendi tu?» mi fa, selezionando le sue sigarette.
«Camel» rispondo come sovrappensiero. In sette secondi mi ritrovo con sigarette, monete e tessera in mano.
«Certe volte ghe voe propio» mi dice l’indiano, sparendo rapidamente tra la gente, verso il barchino.
E dopo un attimo mi ritrovavo di nuovo sui ponti, tra le persone-pesci-gocce, con le mani piene di cose.
Le città d’acqua si muovono, non puoi fermarle. Sono bagnate, non puoi tenerle in mano. Però se parti e torni, sei delle loro. Se per caso ti viene da piangere, un po’d’acqua in più non fa niente.
Così pensavo, mentre i miei piedi mi avevano portato di nuovo a piazzale Roma, che quando lo vedi uscendo dalla stazione ti colpisce nel petto, al centro, dove ci sono le cose più importanti.
Il ragazzo indiano mi aveva lasciato tutto il resto, potevo prendermi il biglietto, un altro. Per partire e tornare.

Venezia non è mia, perché è di tutti quelli che partono e tornano. E, a volte, piangono.

Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi


Venezia, agosto 2011







sabato 8 febbraio 2014

Barcelona El Prat


E se l’amore che avevo non sa più il mio nome
E se l’amore che avevo non sa più il mio nome… 

F. Mannoia


Il bus navetta viaggia nella notte verso l’aereoporto. A bordo, tre donne. Io, la mujer dalle lunghe dita ruvide e di fronte a lei la tedesca sessantenne dalla faccia di luna che mi sorride, sorride. Tre generazioni. Tre lingue, tre corpi, tre donne sole.
Margarita -la mujer dalle lunghe dita- è seccata con il cellulare o con chi sta all’altro capo del filo, in Italia. «Esto no me gusta» dice, e la tedesca che parla spagnolo annuisce, senza mai smettere di sorridere. A Margarita non piacciono gli uomini che si fanno ospitare e scarrozzare per tutta Malaga e poi partono e non rispondono più al cellulare, a Bonn o a Roma o dove sia. Ha il viso bello e fiero e le dita ruvide e forti e qualcosa in fondo agli occhi che ti pare di caderci dentro. La signora tedesca, che sembra una nonna felice e profumata di biscotti, sorride tanto che sembra un gatto dagli occhi a fessura. Quando scendiamo dal bus navetta dentro la notte fredda piena di aerei mi strizza l’occhio. È bene in carne e caracolla dietro al suo valigione a buon mercato, rossa come una mela, corti capelli bianchi, collane di perline addosso. Margarita prende un carrello a testa per le valige.
Io continuo a pensare a quali storie le -ci- hanno portate qui. Margarita è inarrestabile e autorevole, sa esattamente dove andare, io come al solito nemmeno ricordo l’ora del decollo e non so dove sono i gate e dove sono io.
Margarita mi aspetta mentre cerco nei tabelloni il mio volo. Mi guarda e mi sorride. «Io» dice «sono nata per aiutare gli altri.» La guardo negli occhi e lo so, che è vero.
«Sai» mi dice, mentre la mia nonna tedesca spagnola si lascia cadere sulle panchine dell’aeroporto e tira fuori frutta, pane, e un pezzo di torta dolcissima tipica andalusa «Io sono morta due volte». Sorride di un sorriso serio mentre lo dice, spingendo con decisione il carrello carico delle nostre valige. «Due volte ho avuto un incidente e sono andata in coma. E due volte mi sono risvegliata. Per questo so di essere qui per qualcosa. Aiutare gli altri» mi dice, con il suo sorriso serio. E io lo so, che è vero. Con quel sorriso serio, le cose sono vere per forza. Sembra quasi risplendere quando la guardo di nuovo, o forse è il mio sguardo che splende, grazie al suo sorriso serio.
Ci sediamo tutte assieme, ognuna mette qualcosa in comune: la nonna Gerta già l’ho detto, Margarita pane e jamon serrano, io ho solo degli stupidi mandarini e metà baguette, perché ero troppo stanca e incasinata per pensare e comprare oculatamente, ecco. Così ora condivido la mia stupida frutta e pane, ma loro sembrano contente. Nonna Gerta sorride più che mai, buca il soffitto grigio metallo dell’aereoporto.
Perché i soffitti degli aereoporti sono così alti? Lasciano troppo spazio ai pensieri, come se già non fosse abbastanza prendere un aereo e volare.
Finalmente le domando che ci fa qui, col valigione, lei e i suoi capelli bianchi sul viso rosso. Gerta sorride a più non posso. «Sono venuta a suonare» mi dice «ora che ho la mia pensione da infermiera in Germania, sono venuta in Spagna per suonare.» La sua faccia sembra una mela lucida, la nonna degli gnomi. «Ma ora torno un po’ in Germania per stare col mio nipotino» dice, e strizza l’occhio «Ho tirato su mia figlia da sola. Sai, io sono stata una hippy» dice, e sorride, Margarita sorride, e sorrido anche io, senza rendermene conto.
Il cibo è finito e io devo andare al mio gate. Margarita mi abbraccia con la sua stretta forte e calorosa. «Hai un’amica in Spagna» mi dice «se hai bisogno di qualcosa, mi chiami e io arrivo.» E io lo so, che è vero.
Gerta mi dà due grossi baci sulle guance, da nonna contenta. «Sono stata felice di conoscerti» mi dice, e io lo so che è vero.
Ma perché le donne straordinarie sono sempre sole?

Margarita mi accompagna per un pezzo, fino al gate. Poi mi guarda e mi strizza l’occhio, come farebbe Gerta.
«Compartir es siempre mejor», dice.
E io lo so, che è vero.

Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi.


rotonda del Triunfo
Granada, ottobre 2012










sabato 1 febbraio 2014

02.01.13

1.

Il mio mascara sa di pioggia.
Le copertine dei dischi dentro la stanza
Che mi abbraccia.
E io
Grande la metà.

2.

Mi sono sbalzata dal nido.
Maglie viola fili d’erba verde
Lenzuola rosso sangue e azzurro di bastimenti.
Due occhi mi bucano la schiena
Vieni a prendere freddo con me.


sabato 25 gennaio 2014

Siviglia con pipas

Siamo in un tipico bar del sud della Spagna, strapieno di gente vociante e cosparso di pipas, termine intraducibile per definire quella specie di legumi che si usa mangiare e sputare poi le bucce a terra, lasciando un poetico corredo di scorze nerastre che costellano il pavimento, il bancone, le sedie, i tavoli. Sembra molto più brutto di quello che è in verità, cioè un manto ruvido marrone nerastro che fa quasi Messico e nuvole (che voglia di piangere ho).
Naturalmente è impossibile liberarsene, delle pipas, e anzi ne localizzo una nell’incavo del tuo gomito mentre mi parli animatamente e la tentazione sarebbe di scaraventarci tutti e due nelle acque purificatrici del Guadalquivir. Invece ti ascolto, annuisco semisorridendo e ti ascolto.
Mi parli di tuo padre che perse il lavoro quando eri piccolo, di tua madre che è così contenta che ti sei laureato, sei il primo in famiglia! E ora che sei lontano da casa, loro sono contenti lo stesso. Mi viene addosso una ragazza bruna ubriaca e felice che grida qualcosa, così ci schiacciamo ancora di più contro il bancone. Maledette pipas.
«Tu non ti rendi conto» mi dici, con tono forzatamente alto per sovrastare quel colorato casino «Non pensi mai a quanto sei fortunata? Voglio dire, c’è gente che si alza la mattina per fare sempre lo stesso lavoro di merda. Sempre la stessa cosa, avvitare bulloni, archiviare pratiche, mettere il cazzo di tappo su un cazzo di dentifricio» dici, e sbatti la mano sul bancone, senza violenza, così. «Dovresti pensare di più agli altri» concludi, prendendo un generoso sorso di cerveza.
Io non so cosa dire, e non succede spesso, sinceramente. Ti guardo che guardi oltre, aldilà delle teste dell’umanità da bar sivigliano, chissà dove cazzo guardi. Magari guardi me in verità.
«Hai ragione» dico alla fine, guardando nel bicchiere «Hai ragione. Sono una bambina viziata del cazzo. Ho letto troppi libri forse» aggiungo, e quasi rido. Quasi, perché sui libri non c’è troppo da scherzare, è l’unica cosa seria che ci è rimasta.
Tu non dici niente, ma hai l’aria contenta. La gente ti sbatte addosso, come sempre in questi bar, ma non te ne importa. Non te ne importa e io sorrido e vorrei che tu mi guardassi per vedermi sorriderti.
«Allora adesso dove andiamo?» ti dico, senza smettere di sorridere anche se tu continui a guardare oltre.
Tu abbassi lo sguardo - io sono piccolina, devi abbassarlo per forza per guardarmi. Mi sorridi anche tu, solo un poco, così.
«Hai una pipa nei capelli» mi dici ridacchiando, e passi la tua mano grande nei miei capelli, così.
«Restiamo qui» mi dici, senza togliere la mano.

E a Siviglia
Le stelle suonavano forte come tanti sonagli.

Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi.


puente Triana, Sevilla
novembre 2012





sabato 18 gennaio 2014

In nessun luogo

Una volta da piccola ho letto una storia. Non ricordo né il titolo né il nome del protagonista, mi è rimasta solo l’immagine, fortissima, di questa persona o essere che si ritrova con un piede da una parte e uno da un’altra e in mezzo c’è dell’acqua o il vuoto cosmico o il nulla, insomma. Pian piano lo spazio tra i suoi piedi si allarga sempre di più, sempre di più, finché lei rimane lì divaricata, bloccata, congelata senza poter far nulla. Non può né saltare da una parte né dall’altra, né andare avanti né tornare indietro, è piantata nel mezzo. In nessun luogo.
Bauman, quando ha introdotto la tanto decantata definizione di “liquido” per il mondo in cui viviamo, ha parlato anche dei non luoghi. Elementi ormai riconosciuti nell’immaginario comune, i non luoghi riempiono il mondo, ne fanno parte, collegano i luoghi “veri” tra di loro: metropolitane, autobus, treni. Non sei da nessuna parte ma ci stai andando e ciò ti rilassa, forse per questo è così facile addormentarsi in treno: è una pausa dalla vita vera, in cui comunque rientrerai quando arrivi alla tua fermata. Questi non luoghi sono sì anonimi, sì di passaggio, ma sicuri, protetti. Temporanei.
Essere in nessun luogo è diverso. È una condizione paralizzata e paralizzante, come la rana che spicca il salto e si blocca a metà, avvelenata, o come una ginnasta in spaccata permanente. Non sei di passaggio, sei fermo.
Hai tanti luoghi dietro e tanti davanti ma non puoi raggiungerli perché non sai dove sei. Nessun luogo è lontano, d’accordo, e ogni grande viaggio comincia sempre con un primo passo, benissimo, ma in ogni caso c’è bisogno di un punto di partenza. E se non sai dove sei, il punto di partenza non c’è.
Tenere i piedi in due luoghi può portare alla paralisi. Spesso si è costretti a farlo, specie ora, specie noi, generazione di mezzo, imbottitura tra lo strato superiore di ultimi superstiti di un sistema garantista che non c’è più e quello inferiore di giovani rampanti che sono sul pezzo, abituati al caos e alla polverizzazione delle certezze, e che di questo sanno nutrirsi.
Non ricordo come finisse la storia di cui sopra, e proprio questo è il bello: l’immagine rimane pietrificata, in nessun luogo. Essere a metà non è facile, anche se lo sei per natura o se i tempi che corrono ti costringono a esserlo. Immagino che l’incantesimo si sciolga scegliendo un luogo, uno. Probabilmente uno dei due piedi farà male, forse lo si sarà dovuto strappare via con forza o forse si sentirà semplicemente la mancanza del terreno che si pestava dall’altra parte.
Ma almeno si potrà ricominciare a camminare.

calle Recogidas, Granada
novembre 2012





sabato 11 gennaio 2014

Terra - Lisbon love story

La storia comincia nell’aereo, ma in verità era già nella mia pancia da quando ho compiuto dieci anni e due occhi marroni romani hanno fatto volare il mio stomaco nel cielo per la prima volta.
Tu sei seduto di fianco a me, tieni la mia mano nella tua mano, ruvida e calda la tua, piccola e umida la mia.
Mani di bimba, seni di donna, occhi a metà.
Io ho paura di volare e nonostante questo ogni anno prendo almeno dieci aerei. Quando c’eri tu era uno solo all’anno, ma avvolto in una coperta rossa.
Quando arriviamo all’aereoporto tu già mi ha perdonato per la mia rabbia infantile, è colpa mia se ho sbagliato le coincidenze e ho dovuto pagare il supplemento, io sono ancora arrabbiata e tu mi hai già perdonato.
Lisbona odora di vento, è una donna di mare dalle braccia grosse e il seno caldo, sorride con un fazzoletto rosso terra nei capelli e ha un dente nero e gli occhi che luccicano come il Tago. Camminiamo in salita tutto il tempo e io mi innamoro ancora. Gatti dappertutto.
Tu mi chiami piccolina e sento di volerti bene come al mio papà. Ma poi mi dai un bacio sulla torre di Belém e mi si sciolgono le gambe e tremo e ho caldo e ti sento nella mia pancia.
E non amerò mai più così.
Il mio cuore ci sta tutto in un bicchierino di Ginja. Ce lo porta Dona Conceiçao dopo il pranzo e io mi chiedo, Lisbona è lei? Ha la pelle olivastra e cammina a stento per la sua mole, mescola spezzatini come fossero montagne e bercia allegra ai poveri camerieri. Hanno tutti paura di lei e io rido e tu con me. La Ginja è rossa e dolce e forte e sa di ciliegia, come il mio cuore.
In cima al Barrio Alto tu mi dici, vorrei vivere con te in una casetta piccolina, e io mi immagino di seminare scatoloni per tutte le strade e poi unirli e riempirli di cuscini e poi bucarli per passare dall’uno all’altro e ogni mattina svegliarmi e uscire e vedere il mare con te.
Mi hai portato in mare una volta, io non c’ero ma tu come tutti i marinai non porti le donne a bordo se non nel pensiero. Mi hai detto che mi pensavi mentre navigavi, e da quel momento ogni mare mi parla di te.
Anche se sei un marinaio i tuoi occhi sono marroni come la terra. Mi viene in mente mentre osservo le azulejas sui muri, poi guardo te e mi sento a casa. Mi suona una musica nel cuore e non è il fado. Tu mi guardi e mi stringi forte.
A Cabo da Roca il vento soffia violento e tu mi stringi di nuovo. E lo so che siamo troppo giovani o forse sono solo io. È il punto più a ovest d’Europa, questo. Dice il poeta, qui dove la terra finisce e il mare comincia…
Io so che la terra finirà ma il mare è per sempre.

Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi.


Cabo da Roca, Portogallo
dicembre 2005









sabato 4 gennaio 2014

To Sarajevo with love and respect

Ogni volta che vado lontano mi avvicino un po' di più a me stessa. Come se mi togliessi uno strato di pelle, portato via dai chilometri macinati, i venti diversi, gli sguardi della gente del luogo.
Quando poi torno in un posto dove sono già stata, è come se lo leggessi più a fondo: non c'è solamente la curiosità famelica della prima volta, ma lo studio attento e commosso di qualcosa che hai già conosciuto, un po' come la sottile tenerezza per le piccole abitudini di un amante non più da una sola notte. 
A Sarajevo, capitale dal cuore pulsante di battiti differenti, dove si respira storia in ogni angolo, mi danno il bentornato prendendo il volo i piccioni della omonima piazza, da cui partono come arterie le viuzze della città vecchia, dove canta il muezzin e i visi sono scuri e piccioni e turisti si confondono nello stesso cuore, quello vibrante del centro, da dove tutto sembra partire. Camminando lungo il fiume Miljacka, scalando le strade che portano dalla città vecchia a quella nuova, ho la costante sensazione di assistere a qualcosa di solenne, molto più che nelle grandi basiliche o perfino dentro Hagia Sofia ad Istanbul. La storia parla, esce dai buchi dei proiettili nei muri, dalle lapidi bianche a forma di pallottola, dai fori delle granate in terra che sono stati dipinti di rosso e perciò vengono chiamati "rose", dagli occhi di chi sì, c'era o c'è stato, nel più lungo assedio della storia bellica contemporanea. Una lotta fratricida, un paese crivellato, dove prima fedi diverse convivevano, come si vede dal disegno di alcune stampe o perfino del selciato di una piazza, in cui campeggiano quattro diversi simboli religiosi, uniti.
Ma l'emozione più forte, unita ad un vago senso di colpa da europea privilegiata e al disagio di sentirmi "turista" quando vorrei essere sempre e soltanto una viaggiatrice, mi aspetta al cosiddetto tunnel della speranza, che collegava la città all'aeroporto internazionale durante l'assedio. Ci arriviamo in taxi, sono solo 20 minuti dal centro perché Sergj, il taxista, ha appena sentito per radio dell'incidente di Schumacker e vuole evidentemente emularlo, ma io so dire solo "hvala" e "jiveli" e non riesco a farlo rallentare...
Dentro il tunnel, smantellato salvo una piccola parte visitabile, siamo stipati in una stanzetta ad assistere a un video sulla guerra, e mi trovo a fianco una coppia musulmana con una bambina in braccio che continua a sorriderci e a momenti mi fa piangere, smascherando il mio falso contegno da dura. Quando usciamo, seguendo la guida giovanissima (cosa tipica di Sarajevo, che amo molto), incontriamo un giovane papà con bimbo in spalla, che in un misto tra tedesco, inglese e bosniaco ci illustra sulla mappa della città le varie tappe dell'assedio. Quando gli chiediamo perché il resto del mondo non fosse intervenuto di più o diversamente, fa un amaro sorriso. -There is no oil here- dice, e questo basta. Penso al monumento agli aiuti internazionali posto dai sarajevesi vicino al Tito bar: una scultura a forma di scatola di carne proveniente dall'Italia, carne rancida, come l'interessamento europeo ad una guerra dietro l'angolo ma non abbastanza proficua. 
Uscendo, lascio un messaggio sul guestbook:
to Sarajevo from Italy with love and respect.

"pigeons square", Sarajevo
 dicembre 2013
tunnel of hope
monument for the helps


"rose"