sabato 4 gennaio 2014

To Sarajevo with love and respect

Ogni volta che vado lontano mi avvicino un po' di più a me stessa. Come se mi togliessi uno strato di pelle, portato via dai chilometri macinati, i venti diversi, gli sguardi della gente del luogo.
Quando poi torno in un posto dove sono già stata, è come se lo leggessi più a fondo: non c'è solamente la curiosità famelica della prima volta, ma lo studio attento e commosso di qualcosa che hai già conosciuto, un po' come la sottile tenerezza per le piccole abitudini di un amante non più da una sola notte. 
A Sarajevo, capitale dal cuore pulsante di battiti differenti, dove si respira storia in ogni angolo, mi danno il bentornato prendendo il volo i piccioni della omonima piazza, da cui partono come arterie le viuzze della città vecchia, dove canta il muezzin e i visi sono scuri e piccioni e turisti si confondono nello stesso cuore, quello vibrante del centro, da dove tutto sembra partire. Camminando lungo il fiume Miljacka, scalando le strade che portano dalla città vecchia a quella nuova, ho la costante sensazione di assistere a qualcosa di solenne, molto più che nelle grandi basiliche o perfino dentro Hagia Sofia ad Istanbul. La storia parla, esce dai buchi dei proiettili nei muri, dalle lapidi bianche a forma di pallottola, dai fori delle granate in terra che sono stati dipinti di rosso e perciò vengono chiamati "rose", dagli occhi di chi sì, c'era o c'è stato, nel più lungo assedio della storia bellica contemporanea. Una lotta fratricida, un paese crivellato, dove prima fedi diverse convivevano, come si vede dal disegno di alcune stampe o perfino del selciato di una piazza, in cui campeggiano quattro diversi simboli religiosi, uniti.
Ma l'emozione più forte, unita ad un vago senso di colpa da europea privilegiata e al disagio di sentirmi "turista" quando vorrei essere sempre e soltanto una viaggiatrice, mi aspetta al cosiddetto tunnel della speranza, che collegava la città all'aeroporto internazionale durante l'assedio. Ci arriviamo in taxi, sono solo 20 minuti dal centro perché Sergj, il taxista, ha appena sentito per radio dell'incidente di Schumacker e vuole evidentemente emularlo, ma io so dire solo "hvala" e "jiveli" e non riesco a farlo rallentare...
Dentro il tunnel, smantellato salvo una piccola parte visitabile, siamo stipati in una stanzetta ad assistere a un video sulla guerra, e mi trovo a fianco una coppia musulmana con una bambina in braccio che continua a sorriderci e a momenti mi fa piangere, smascherando il mio falso contegno da dura. Quando usciamo, seguendo la guida giovanissima (cosa tipica di Sarajevo, che amo molto), incontriamo un giovane papà con bimbo in spalla, che in un misto tra tedesco, inglese e bosniaco ci illustra sulla mappa della città le varie tappe dell'assedio. Quando gli chiediamo perché il resto del mondo non fosse intervenuto di più o diversamente, fa un amaro sorriso. -There is no oil here- dice, e questo basta. Penso al monumento agli aiuti internazionali posto dai sarajevesi vicino al Tito bar: una scultura a forma di scatola di carne proveniente dall'Italia, carne rancida, come l'interessamento europeo ad una guerra dietro l'angolo ma non abbastanza proficua. 
Uscendo, lascio un messaggio sul guestbook:
to Sarajevo from Italy with love and respect.

"pigeons square", Sarajevo
 dicembre 2013
tunnel of hope
monument for the helps


"rose"










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