sabato 17 dicembre 2016

Diario notturno #1

C'è una crepa in ogni cosa, ma è da lì che entra la luce.
Leonard Cohen

Mi verso del vino rosso che ha fatto in casa il nonno Toni, sa di beccacce in volo sopra l'argine, cieli nebbiosi e cuore caldo. Fuori fa freddo ma ancora non troppo, mi piace andare in terrazzo a fumare e guardare le stelle mentre bevo, si mescola tutto come un acquerello. Dal balcone vedo la strada, c'è un signore che ogni notte a mezzanotte passeggia con in mano un secchio, si ferma un attimo all'angolo della mia via e poi va avanti, e ogni volta rimango sospesa per paura che non riparta più, come un vecchio motore. Ma poi prosegue sempre, come il cielo che cambia colore, come la mattina che arriva anche se hai dormito poche ore o per niente. Lo vedo ripartire e posso espirare l'ultimo fumo, spegnere il mozzicone nel bicchiere freddo.
Il cielo è grande, forse per questo i pensieri si fanno spazio più facilmente quando non ho niente sopra alla testa. Penso a te, che vivendo qui con me sei diventata come un ossicino del mio corpo, uno nuovo, che prima non c'era e adesso fa parte del mio scheletro. Ora che te ne vai non sento il dolore di un osso rotto, ma il naturale fluire del sangue e forse davvero funziona così, che le cose vere sono semplici, fluiscono come il sangue, e come lui nel profondo restano.

Passo quasi tutto il tempo a pensare di essere rotta e a cercarmi a brandelli sotto a un cielo grande. Finché non mi riconosco nei piccoli passi, in un inciampo, un ossicino. Nel sangue che dentro sempre scorre.

domenica 6 novembre 2016

La muta

Il rumore delle suole quando pestano un sentiero di montagna è diverso, più ruvido, sa di muschio, di pelo ispido. Con gli scarponi do schiaffi all'erba, calcio getti di rugiada che disegnano piccoli archi sul prato. Vorrei aver preso un bastone nel bosco, ce n'era uno bellissimo che sembrava fatto apposta per incastrarlo tra sasso e sasso, come faceva mia mamma nelle foto da giovane. Anche gli scarponi sono simili ai suoi, solo più tecnici perché sono passati trent'anni e allora era più difficile per le donne trovare buoni scarponi per battere il sentiero scelto, adesso rimane difficile solo scegliere il sentiero.
Abbiamo guardato le foto di famiglia, oggi, quelle nel raccoglitore più vecchio di tutti, con la copertina lucida anni '90. Mia mamma sorrideva incinta, con una salopette di jeans e il maglione rosso a collo alto che quando ero piccola pensavo le trasformasse la faccia perché quando emergeva aveva più lentiggini di prima e le restavano tutti i capelli elettrici. Per tutta la prima elementare non ho voluto indossare maglioni a collo alto per paura che mi facessero venire le lentiggini.
In un'altra foto ci siamo noi quattro in montagna, mio fratello nel marsupio dorsale con mio padre che lo porta e intanto sale come un capriolo con la barba, mia mamma dietro con le belle gambe lunghe e io per mano, una bandana tirolese con dentro una bambina, una frangetta che cammina.
La montagna della foto è questa qui dove mi trovo ora o almeno mi sembra, rocce prati e boschi sembrano sempre gli stessi e forse per questo li amo tanto, sono vecchi e veri come la terra, come la pancia e le mani. Ci cammino e mi sento me.
Poi entro nel bosco, di nuovo. Le ombre degli alberi mi disegnano addosso strisce tigrate, sento l'olfatto che si affina, come un animale. Tutti i rumori degli animali e delle piante creano una specie di silenzio, come quando prima di uno spettacolo il brusio riempie l'attesa. Quando ero bambina avevo paura di tutto ma del bosco no, forse perché non ero mai sola quando ci andavo, e anche quando stavo da sola non ero mai sola.
A un certo punto pesto qualcosa che scricchiola, una consistenza strana, sconosciuta. Alzo lo scarpone e quel qualcosa luccica, come un pesce sparato fuori dall'acqua. Se avessi il bastone potrei infilzarla per alzarla e vederla meglio, invece mi chino a osservare: è una pelle di serpente, seccata.

E allora penso, forse che siamo tutti carni nuove uscite da pelli vecchie e aspettiamo solo di pestare un guscio per renderci conto che è il nostro, che camminiamo sopra le nostre orme, da sempre? Che mentre aspettiamo di crescere, stiamo già facendo la muta?

domenica 9 ottobre 2016

Venti

1.      Quando sei in un taxi di una città straniera con un ragazzo che non rivedrai mai più - poi Facebook dirà che fa l'università a Rio - che spiega all'autista dove andare e per la prima volta capisci davvero cosa vuol dire una parola in un'altra lingua, perché il taxista dice pois che vuol dire va bene e allora il ragazzo ti prende la mano nel taxi e te la tiene tutto il tempo
2.      Quando torni di notte in bici con la balla da vino, freni e quasi entri nella siepe, chissà come riesci a centrare la serratura con le chiavi - per fortuna perché non stai più dai tuoi e nessuno ti aprirebbe se suonassi - e ti accoccoli sulla soglia a fumare l'ultima sigaretta con la musica sparata nelle cuffie e sulla testa tutte stelle che bucano il blu
3.      Quando non hai la lavatrice e devi andare in lavanderia e guardi il tuo bucato che gira per 50 cent e pensi che ci sei dentro tu, all'acqua di risciacquo di una lavatrice gigante, una placenta colorata
4.      Quando tutte le canzoni parlano di te
5.      Quando sei agli arrivi in aeroporto ed è sempre diverso, una volta ci sono i tuoi vecchi, poi sei sola, poi c'è un uomo che ti ama, e poi sei di nuovo sola e il bus che prendi è rotto come la tasca del tuo vecchio zaino di scuola
6.      Quando ti baciano sotto un portico alle due di notte
7.      Quando, Skype
8.      Quando te ne freghi e ti spingi più in là e più in là come un sassolino appuntito senza cuore
9.      Quando i tuoi occhi sono ruote di bicicletta con le toppe
10.  Quando le nuvole hanno le forme del fumo
11.  Quando in viaggio bevi da una fontana e poi passi tutta la notte sul water dell'ostello che chiude l'acqua corrente a mezzanotte e la mattina dopo sei verde e il gestore ti dice, bevi la rakija che ti passa!, e tu la bevi e cazzo funziona e puoi ripartire
12.  Quando sei seduta in un pulmino scassato che attraversa montagne sconosciute sobbalzando a ogni buca e tu devi sederti sulle mani per impedirti di stringere quella del ragazzo che ti siede accanto, spalle a contatto che sudano cuore
13.  Quando ti ficchi uno spazzolino in gola per vomitare la sbronza e poi devi andare diretta a un colloquio di lavoro con tre persone che ti parlano e tu sei un pesce in un acquario
14.  Quando ti svegli in un letto che non sai di chi è
15.  Quando hai paura e ti senti perso come un cane senza coda
16.  Quando, i fiori e i biglietti a seccare nelle agende
17.  Quando, il curriculum vitae
18.  Quando sei tutto cuore e polmoni e ogni nuova faccia che incontri diventa un disegno a colori
19.  Quando le sagome degli alberi riflesse sul fiume sono i battiti del tuo cuore che corre
20.  Quando nella foto del passaporto sei tua madre e tua figlia


Vent'anni.


sabato 30 luglio 2016

Carta

Il salottino della nonna sa di carta e lana e amido di riso. Lei siede sempre su una sedia di legno che scricchiola, mi sembra che questi scricchiolii rendano le sue rughe frastagliate come il delta dei fiumi sul sussidiario o le tazzine della cucina, quasi tutte crepate, però ogni volta che ci bevo l'acqua sa di cielo. Gli scricchiolii della sedia vanno all'unisono con il suo respiro, la nonna usa solo il naso perché la bocca è spesso piena di spilli per il rammendo oppure è contratta come una mela cotogna. Il tavolino è invaso da libri e quaderni, non c'è nemmeno un quadratino libero. Io sto disegnando una sirena ma devo stare attenta a non farmi beccare perché se la nonna vede che non sto studiando mi strappa il foglio col disegno.
L'odore di carta mi accompagna come un vecchio amico, anche la mamma è sempre piena di fogli con i temi, li semina per tutta la casa come tracce, indizi per una caccia al tesoro. Ci sono un sacco di segni rossi sopra, onde e punti esclamativi e interrogativi come in un codice segreto, vorrei avere una legenda per poterlo decifrare. Allora per avvicinarmi al segreto li copio, riempio i miei diari di sei e mezzi e frasi come: spiegati meglio, da approfondire, bella osservazione, poi li confronto con i temi della mamma e mi sembra che siano quasi uguali.
La nonna si sta quasi appisolando, vedo che la sua testa inizia a ciondolare come quella della zia March nel mio libro preferito, Piccole donne. Allora, come Jo, aspetto che il respiro diventi regolare e in silenzio posso iniziare la mia caccia. Apro senza far rumore i cassetti della credenza per frugarci dentro, sono quasi tutti vecchi quaderni, cartoline e foto ingiallite. Una è datata 1957 e dice: un caro saluto alla mia maestra, Antonio. La giro e nella foto appare un signore distinto in giacca e cravatta con a fianco la moglie e due bambine piccole tutte in ghingheri. La annuso e sento odore di lapis, la nonna lo usa sempre anche per correggere i miei compiti, matita rossa per gli errori piccoli e blu per quelli gravi, una volta ho provato a mettermela sulle palpebre come le donne grandi e la nonna l'ha buttata rabbiosamente in un cassetto, poi sono andata a cercarla e non c'era più. 
Mentre frugo fra tutte queste carte mi distraggo e con un foglio mi faccio un taglietto sul dito, piccolino ma fa male e mi scappa un: ahia! La nonna si riscuote dal sonno e mi becca in flagrante con il naso tra le sue carte. Senza dire una parola si alza piano e sempre respirando come un mantice va alla credenza e prende la bottiglia della grappa. Ne versa un goccino sul foglio incriminato e poi me lo passa sopra al taglietto. Brucia, ma il sangue pian piano diventa dello stesso colore della carta, finché non si capisce più cosa è sangue e cosa è carta. La nonna tiene il foglio sulla mia mano per cinque respiri scricchiolanti e non dice niente, io penso: chissà se anche la mamma ha il sangue così.

Dalla raccolta immaginaria Altri racconti.

sabato 2 luglio 2016

La luce abbagliante del mattino

Ci svegliamo presto, prima Gabriele e poi io, lo sento che scalcia nel letto a castello sopra al mio e quando do un pugno al materasso sulla mia testa tutto quello che ottengo è un: - ...Mmm, 'fnculo -. Comunque fa troppo caldo per continuare a dormire, la roulotte sembra la pancia di una balena che nuota in una tazza di tè e le cicale friniscono già da un po'. Geghe geghe geghe geghe, secondo me stanno dicendo: - caldo fa caldo fa caldo fa caldo - nella loro lingua, è il mio rumore preferito dell'estate. Invece il mio odore preferito dell'estate è quello della pineta, spalanchi la porta della roulotte e arriva fresco e pungente, con qualche residuo di zampirone. Il sole profuma di aghi di pino e il cielo sa di azzurro, non so se l'azzurro ha un odore ma secondo me sì, ed è quello del cielo d'estate.
Io e Gabriele abbiamo un po' di tempo per le esplorazioni prima che mamma e papà si alzino, così saltiamo giù dalla roulotte in pigiama e ci avventuriamo nel campeggio che si sveglia.
Gabriele è un esploratore e un esperto di animali rari, soprattutto quelli che si nascondono vicino alle tende altrui. Negli ultimi giorni ha già scovato un ghiratto (mezzo ghiro e mezzo gatto), un lucertoforse (lucertola priva di coda che forse è una lucertola ma certo non è un cucciolo di drago) e due esemplari di cavallettarini, che sembrano normali cavallette ma di notte saltano fino al mare e diventano cavallucci marini. Sono un po' gelosa, io non sono così brava a stanare gli animali. Da grande voglio fare la scrittrice, io.
Siamo arrivati vicino alla tenda dei nostri amici di campeggio, i signori della Liguria, che si sono appena sposati e sono venuti qui in vacanza da Genova. Almeno credo che siano sposati, lei non porta nessun anello, però lui le accarezza le gambe come fa il mio papà con la mamma quando crede che non vediamo e a volte le loro pelli hanno lo stesso odore, di salato e polpa di frutta. La signora della Liguria è molto bella, Gabriele non riesce mai a guardarla negli occhi, abbassa la testa e fissa impacciato il terreno, mi fa tanto ridere ma lo faccio di nascosto, sennò mi picchia. É venuta un giorno alla nostra roulotte a chiedere aiuto perché la loro tenda era invasa dalle formiche rosse, Gabriele si è acceso in viso ed è balzato fuori, prima ancora della mamma armata di polverina anti insetti. Poi hanno dovuto spiegargli che la polverina bianca era il sentiero che portava al castello delle formiche rosse, e così abbiamo fatto amicizia, con Gabriele che tracciava cerchi bianchi attorno alla tenda e i grandi che tagliavano l'anguria.
É ancora presto, la tenda arancione è semiaperta e si vede la signora della Liguria che riposa su una sdraio. Ci riconosce attraverso la tenda e sorride, ci chiama per nome. Entriamo, c'è odore di pino e sale e frutta e polvere bianca. La signora è sola, sembra stanca ma ci sorride ancora, ci fa sedere vicino a lei e ci dà una pesca a testa, di quelle con la buccia morbida. Gabriele come al solito non riesce a guardarla in faccia, fissa la pesca mentre la signora ci dice che ha una sorpresa. Lo dice a tutti e due ma guarda Gabriele che guarda la pesca, e a un certo punto ci prende le mani e se le mette sulla pancia.
- Ho un pesciolino d'oro qui dentro - ci dice, e la sua pancia è morbida di pesca. Gabriele alza gli occhi e la guarda, e dentro agli occhi ha il sole del mattino.

Dalla raccolta immaginaria Altri racconti

domenica 29 maggio 2016

Sogni d'inverno

Mi sveglio per la luce che filtra sotto la porta, è tenue ma il suo debole calore mi batte attraverso le palpebre e fa scivolare via i resti del sogno. Mi sa che c'era mia madre, nel sogno, vestita come una sciamana pellerossa e io la abbracciavo, non amo gli abbracci da sveglia ma nel sogno volevo proprio farlo e lei mi diceva qualcosa all'orecchio. Forse è stata quella frase a svegliarmi e non la luce, lei mi diceva: - Vai bene così -, io sentivo l'odore di cuoio rosso della sua tunica e mi sono ritrovata con gli occhi aperti per la meraviglia, pieni della luce del mattino. Ieri notte invece ho sognato mio padre che si sposava e non c'era un posto per me nei banchi della chiesa, erano tutti seduti tranne me. Allora chiedevo al prete dov'era il mio posto, ero la figlia dello sposo insomma, e lui rispondeva che non c'era. Non è stato un buon risveglio, però è bello sognare la mamma e il papà quando non vivi più con loro, è come una polaroid di te bambino nella tasca mentre guidi nel traffico o fai la coda alle poste.
Rimango per un po' sotto le coperte, anche se è primavera fa freddo, il vento ha soffiato di nuovo l'inverno in città e mi concedo di indugiare nel tepore. Tanto so già cosa mi aspetta, scorrere il cellulare e stretching e caffè e lavoro, perdendomi in internet ogni mezz'ora. La casa vuota e muta, fatto salvo quel rumore di fondo che impedisce alla vita di stare davvero in silenzio, come una sorta di vibrazione bassa e continua, un bombo che romba sotto la superficie delle cose.
Questo inverno non se ne va, mi tiene legata dentro una coperta, mi sembra di guardare il mondo attraverso la finestra rigata di pioggia senza riuscire a spaccarla, quella finestra, e saltare fuori, come il bombo a primavera.

Dalla raccolta immaginaria Altri racconti.

martedì 12 aprile 2016

Pezzi

Che paura, che voglia che ti prenda per mano...

F. De André

Forse una delle cose che dovrebbero dirti, quando si inizia a parlare d'amore, è che può andare tutto a puttane. Può, ma tu devi provare lo stesso. Perché non c'è niente di peggio che stare a bordo campo inveendo contro un pallone che non calci, quasi peggio dei vecchi che guardano i lavori stradali con le mani dietro la schiena e le tasche piene di rimpianto.
Al massimo sbagli, e sbagliando s'impara. Io cosa ho imparato? Vediamo.
Una volta non abitavo nella stessa città di lui, e la poesia dei treni non era sufficiente a stemperare il mio egoismo, a farmi combattere, così ho mollato. Non sapevo cosa volevo fare di me, perciò non sono riuscita a costruire un noi (e un noi senza un me - o un te - non esiste).
Un'altra volta non ero convinta fin dall'inizio ma ho provato lo stesso, è durata diversi mesi (un'altra volta, simile a questa, anni) in cui abbiamo costruito una casa senza fondamenta ma che ci ospitava entrambi e ci scaldava quando era freddo, salvo poi andarmene senza nostalgia, sola con i miei sensi di colpa.
Un'altra volta, anzi tante, era solo divertimento ma a un certo punto non funzionava più, un sorriso fa in fretta a trasformarsi in un ghigno e presto la sola cosa che resta è un nome in più.
Un'altra volta ero innamorata ma lui no, almeno lì ho pianto per qualcosa, e un'altra ancora era vero amore fortissimo ma è andato tutto a puttane lo stesso, sì eravamo troppo giovani ma non te lo spieghi lo stesso, come è possibile che l'amore finisca, come.
Quando va sempre tutto in pezzi si può decidere se chiamarli cocci oppure mattoni, se dietro c'è solo distruzione oppure la forma della tua vita, i tasselli di te. Si resta in piedi, si mettono i pezzi in tasca per poter, alla fine, montarli e vedere il disegno.

Rompersi è un rischio che si corre incontrandosi, ma dentro al guscio c'è la polpa, la parte più vera. Forse un cuore patchwork è meglio - e più vero - che essere tutti di un pezzo, ma soli.

mercoledì 30 marzo 2016

Porti

Lo so, sono un mare in tempesta                                                                                                       Ma, per favore, resta.

Murales nel porto di Bari

Partire è un po' morire, non so chi lo dicesse, ma lo capisco, anche se forse per me partire è un po' vivere alla seconda, non come potenza, ma come possibilità. Il mare dà questa sensazione di possibilità infinite, come il treno che si allunga dolce e stiracchia i pensieri, come il vuoto sopra la testa negli aeroporti (l'ho già detto, c'è troppo, troppo spazio per pensare negli aeroporti).

Le corde secche e salse che si usano per gli attracchi delle navi sono piene di nodi, uno per ogni porto, e per ogni porto un bacio. E per ogni porta di casa in cui hai passato la notte, un bacio. I baci sulla porta forse sono i più belli, perché si aprono e chiudono come un occhio che spia, ammicca e si addormenta.

E allora mi domando, la vita è una corda piena di nodi, una collana infilata di baci, una sequenza di viste da finestrini e oblò? Così ci sarà sempre un altro porto, un altro bacio, un'altra finestra.

Oppure, restare. Saper scegliere di restare, magari solo per un poco, magari solo una volta.
Saper dare il tempo al vento del porto di seccartisi addosso, per poter avere, domani, nostalgia.

martedì 15 marzo 2016

Sagome


-          Ad ogni modo, mi piace ora, - dissi. - Proprio adesso, voglio dire. Stare qui seduto con te a fare quattro chiacchiere, e a scherzare…
-          Questa non è una VERA cosa!
-          È una VERA cosa eccome! Certo che lo è. Perché diavolo non lo è? La gente non crede mai che una cosa sia una VERA cosa. Ne ho arcipiene le maledette tasche.

J. D. Salinger

Il divano di casa dei miei mi ricorda il Millenium Falcon, io e mio fratello lo usavamo come navicella mentre guardavamo Guerre Stellari e ci immedesimavamo nei protagonisti. Io adoravo la scena in cui Han Solo bacia la principessa Leia e prima le dice: - Stai tremando - e lei risponde di no ma si vede che invece è sì, e insomma fin da allora ho sempre desiderato essere una donna forte, o almeno forte fuori e dolce dentro, una tosta. Quando sei piccolo pensi che da grande le cose succederanno e basta, diventerai qualcuno, e anche se la grotta in cui pensi di essere è in verità la bocca di un mega verme spaziale, te ne accorgi in tempo e scappi. Insomma, quando sei piccolo pensi che saprai, capirai, diventerai chi sei.
Poi più cresci più hai a che fare con sagome, e per sagome non intendo gli spiritosoni, bensì delle figure contenitive, delineanti, ideali. Ti si specchiano negli occhi a casa, a scuola, in patronato, al parco, ai concerti, all'università, in TV. Finché sei giovane va anche bene, non avere una forma, dire: tanto un giorno capirò, saprò.
Ma chi lo dice che finisce così, che a un certo punto ti capisci e rientri in un modello. Certo, i modelli servono, se non per avere un riferimento, almeno per distruggerli. Io adoravo le donne forti in cui mi imbattevo da ragazzina e la loro emulazione mi ha sicuramente fatto crescere, dato identità.
Il punto è che non c'è un magico momento in cui sei grande e sai. Continui a crescere, però, le stagioni cambiano e così gli abiti delle persone, e tu senti che forse dovresti essere qualcosa di diverso, o meglio, dovresti essere QUALCOSA. Hai cambiato pelle tante volte - ed "è dura lasciar andare la vecchia pelle..."* - eppure il vestito nuovo, da adulta, non c'è, non ti sta.
E allora scappi dalla grotta che crolla o dalla bocca che ti si chiude addosso, corri fuori, in un eterno altrove. Oppure ti fermi e ti ascolti maturare, senti sottopelle scorrere te stessa che resta e allo stesso tempo cambia. Guardi le mogli e le mamme e pensi: dio mio.
Perché c'è un'altra cosa, e la dice molto meglio Virginia Woolf ma ora ci provo anche io, e cioè: essere una donna vuol dire nascere e avere già un vestito addosso all'anima nuova di zecca. Cucirtelo tu, il tuo vestito, comporta togliere o adattare quello che ti sei ritrovata addosso. E se è dura lasciar andare la vecchia pelle, figuriamoci spogliarti e cucirti la tua.

* R. Kypling, Il libro della giungla

domenica 14 febbraio 2016

Amica

Fumiamo sigarette fatte con l'origano arrotolato in strisce di fogli di quaderno. Brucia la gola e fa schifo, ma noi ci preoccupiamo solo che non si senta l'odore nella camera e accendiamo l'incenso preso alle bancarelle per sviare i sospetti dei tuoi.
Quando finalmente mi innamoro te lo racconto, ci sediamo sulle panche di pietra ai parchetti e tu mi regali un biglietto con un ideogramma cinese che significa "insieme". Il mio ragazzo ha gli occhi castani, d'inverno mi porta sulla canna della bicicletta tenendo le mani coi guanti sopra alle mie senza e mi colora il cuore a poco a poco, come nei disegni dei nostri diari.
Quando poi finisce piango tanto e non capisco, dividiamo le sigarette e non importa su quale parte della panca di pietra mi siedo, so che tu sei dalla stessa parte. Ci ghiacciamo le chiappe a stare lì a fumare nella nebbia umida ma quando torno a casa mi sento come se avessi bevuto un tè caldo anche se il fiato è corto.
Andiamo al cinema con la segreta speranza condivisa di essere catapultate in un altro mondo e risvegliarci solo quando le luci in sala si accendono e ci guardiamo in faccia per riconoscerci. Se il film ci è piaciuto non diciamo niente e ridiamo, aspettando che le impressioni fermentino in un bicchiere di vino. Quando il film è proprio bello non ce lo dimentichiamo più e i nostri nomi diventano quelli dei protagonisti finché non ci inventiamo un sogno nuovo.
Poi tuo padre muore e io non trovo le parole per esserti vicina, di tutti i nostri linguaggi non riesco a trovarne uno adatto per questo. Taccio ma ci sono, sperando solo che la mia presenza possa scaldarti come una stufa silenziosa, come il tè caldo che sei tu per me quando mi fa male il cuore.

Adesso abbiamo più di trent'anni e le pagine dei nostri diari sono fitte di scritte, avvenimenti, nomi, luoghi, date. Eppure continuiamo a scrivere la nostra storia al presente.

Dalla raccolta immaginaria Altri racconti.

giovedì 28 gennaio 2016

Serale

Arriviamo a scuola che è sempre buio, non ho mai visto il portone o l'atrio alla luce del giorno ed è strano, un po' come rimanere chiusi in un museo dopo l'orario o dentro al supermercato di notte. Mi sento come Bastian ne La Storia Infinita, quando si chiude nella soffitta della scuola per leggere il libro magico ed è circondato da animali imbalsamati, tappetini da palestra, uno scheletro di plastica, poi arriva il temporale e spacca tutti i vetri. Vagando alla vana ricerca di una cartina geografica, capito per caso in una stanza semichiusa e mi trovo in un posto proprio così, cade a pezzi ed è ripieno di cianfrusaglie, tra cui una lavagna di ardesia con scritte irripetibili che mi ricordano che no, dopotutto non sono in un film.
Gli studenti arrivano alla spicciolata come fuochi fatui, si trovano a gruppetti attorno al distributore delle bibite calde, folletti notturni che allungano la loro giornata nel caffè per avere i tempi supplementari per la scuola. C'è rumore, c'è vita, un colorato vociare da taverna, racconti di ogni tipo. É un mondo alla rovescia, sono come tante lucciole che si portano sulla schiena la lanterna in cui brilla la loro storia. Il bello è che, di notte, è più facile raccontare. É un tempo lunare, arcaico, di nonni e mamme che raccontano la favola della buonanotte, di famiglie riunite attorno al tavolo a chiacchierare, di storie di paura dette apposta tardi, così si dorme tra i brividi.

Devo solo abituarmi ad accendermi quando fa notte, come le lucciole. Poi ci si riconosce nel buio e basta solo avvicinarsi.

Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi