domenica 15 novembre 2015

Una preghiera


Don't let me face my life alone.

Freddie Mercury


Sono giorni di terrore. Il primo mediato dagli schermi dell'informazione, ma la virtualità stavolta non fa da filtro, il cuore mi pesa tanto che mi sento chiusa in un sacco di plastica nera, come se fossi morta anch'io e mi stessero trasportando in obitorio per il - dio mio! - riconoscimento da parte dei parenti.
Il secondo non ha media, è fatto di facce, quelle che vedo la domenica al lavoro e mi raccontano il loro viaggio verso l'Europa, parole nere in volti scuri, come se questi visi fossero in qualsiasi modo diversi da quelli bianchi sparati a sangue. Solo adesso sento così forte come il male sia uguale per tutti. E vai tu a capire se un uomo trema perché lo sbalzo termico dall'Africa è forte o per la disumanità di raccontare dei bambini libici di 10 anni armati fino ai denti - but big boys don't cry. E abbi tu il coraggio di toccare una spalla voltata per orgoglio, che nasconde il dolore di chi ha perso la sua donna, sparata. E diglielo tu, che d'ora in poi non potrà che andare meglio, 
« Inchallah » risponde lui. « Inchallah », ripeto io.
Il dolore, il male, lo strazio, sono uguali per tutti. Il cuore, sempre rosso è.

A me, la scrittura sbuccia il cuore come una mela e solo qui riesco a dire quanto voglio credere che l'amore, quello che tiene insieme, ci salvi dal male.

mercoledì 4 novembre 2015

La stanza

Quando ero piccola, viaggiare non mi piaceva. O meglio: si trattava sempre di viaggi di famiglia, quindi inscatolati in una macchina dai sedili puzzoni ma scaldati da chiappe irrorate dallo stesso mio sangue, o inquadrati in un camper balengo a forma di temperino dove ci si incastrava in ogni angolo come quattro tenori obesi, o prima ancora infilati in una roulotte talmente sbiadita nella memoria da lasciare solo un'immagine di teli e stoviglie e io che svegliavo tutto il campeggio con gli urli della mia prima otite. Questi vagiti di viaggi erano già decisi e organizzati, io me li vivevo colorandoli nei quaderni che mi portavo sempre dietro e sapevo che a un certo punto si tornava a casa, nella mia stanzetta.
Poi sono cresciuta e a un certo momento, tra una copertina rossa di tesi e una scatola di ricordi d'amore, ho iniziato a viaggiare perché volevo io.
La prima volta che ho lasciato la mia stanza un po' volevo mettermela in tasca e camminarci assieme fino a destinazione, sentire il suo peso rassicurante nel fodero delle giacca. Avevo bisogno di costruirmi la stanza ogni volta che andavo a stare in un posto nuovo, creare una mappa di me francese, spagnola, portoghese, così quando me ne andavo avevo nella valigia uno scomparto arlecchinesco pieno di foto tazze poster libri magneti bottiglie. E quando si trattava di comporre la stanza successiva, saltava tutto fuori come un cucù multicolore.

Adesso siamo alla mia settima stanza e sento voci rimbalzare da ogni spigolo. Sarà che è in una casa che conosco bene, sarà che gli scatoloni sono in cinque lingue diverse. É come un canto corale: tazze spagnole che naccherano, foto francesi che ammiccano, stampe portoghesi che frusciano come il vento sul Tejo, e poi liquori turchi, greci e polacchi perché la stanza, avevo dimenticato di dirlo, ogni volta che la riempio mi emoziona tanto, che non posso fare a meno di brindarci su.

Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi