Quando ero piccola,
viaggiare non mi piaceva. O meglio: si trattava sempre di viaggi di famiglia,
quindi inscatolati in una macchina dai sedili puzzoni ma scaldati da chiappe irrorate
dallo stesso mio sangue, o inquadrati in un camper balengo a forma di temperino
dove ci si incastrava in ogni angolo come quattro tenori obesi, o prima ancora
infilati in una roulotte talmente sbiadita nella memoria da lasciare solo
un'immagine di teli e stoviglie e io che svegliavo tutto il campeggio con gli
urli della mia prima otite. Questi vagiti di viaggi erano già decisi e
organizzati, io me li vivevo colorandoli nei quaderni che mi portavo sempre
dietro e sapevo che a un certo punto si tornava a casa, nella mia stanzetta.
Poi sono cresciuta e a
un certo momento, tra una copertina rossa di tesi e una scatola di ricordi
d'amore, ho iniziato a viaggiare perché volevo io.
La prima volta che ho
lasciato la mia stanza un po' volevo mettermela in tasca e camminarci assieme
fino a destinazione, sentire il suo peso rassicurante nel fodero delle giacca.
Avevo bisogno di costruirmi la stanza ogni volta che andavo a stare in un posto
nuovo, creare una mappa di me francese, spagnola, portoghese, così quando me ne
andavo avevo nella valigia uno scomparto arlecchinesco pieno di foto tazze poster
libri magneti bottiglie. E quando si trattava di comporre la stanza successiva,
saltava tutto fuori come un cucù multicolore.
Adesso siamo alla mia
settima stanza e sento voci rimbalzare da ogni spigolo. Sarà che è in una casa
che conosco bene, sarà che gli scatoloni sono in cinque lingue diverse. É come
un canto corale: tazze spagnole che naccherano, foto francesi che ammiccano,
stampe portoghesi che frusciano come il vento sul Tejo, e poi liquori turchi,
greci e polacchi perché la stanza, avevo dimenticato di dirlo, ogni volta che
la riempio mi emoziona tanto, che non posso fare a meno di brindarci su.
Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi
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