mercoledì 4 novembre 2015

La stanza

Quando ero piccola, viaggiare non mi piaceva. O meglio: si trattava sempre di viaggi di famiglia, quindi inscatolati in una macchina dai sedili puzzoni ma scaldati da chiappe irrorate dallo stesso mio sangue, o inquadrati in un camper balengo a forma di temperino dove ci si incastrava in ogni angolo come quattro tenori obesi, o prima ancora infilati in una roulotte talmente sbiadita nella memoria da lasciare solo un'immagine di teli e stoviglie e io che svegliavo tutto il campeggio con gli urli della mia prima otite. Questi vagiti di viaggi erano già decisi e organizzati, io me li vivevo colorandoli nei quaderni che mi portavo sempre dietro e sapevo che a un certo punto si tornava a casa, nella mia stanzetta.
Poi sono cresciuta e a un certo momento, tra una copertina rossa di tesi e una scatola di ricordi d'amore, ho iniziato a viaggiare perché volevo io.
La prima volta che ho lasciato la mia stanza un po' volevo mettermela in tasca e camminarci assieme fino a destinazione, sentire il suo peso rassicurante nel fodero delle giacca. Avevo bisogno di costruirmi la stanza ogni volta che andavo a stare in un posto nuovo, creare una mappa di me francese, spagnola, portoghese, così quando me ne andavo avevo nella valigia uno scomparto arlecchinesco pieno di foto tazze poster libri magneti bottiglie. E quando si trattava di comporre la stanza successiva, saltava tutto fuori come un cucù multicolore.

Adesso siamo alla mia settima stanza e sento voci rimbalzare da ogni spigolo. Sarà che è in una casa che conosco bene, sarà che gli scatoloni sono in cinque lingue diverse. É come un canto corale: tazze spagnole che naccherano, foto francesi che ammiccano, stampe portoghesi che frusciano come il vento sul Tejo, e poi liquori turchi, greci e polacchi perché la stanza, avevo dimenticato di dirlo, ogni volta che la riempio mi emoziona tanto, che non posso fare a meno di brindarci su.

Dalla raccolta immaginaria di racconti Luoghi

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