sabato 14 gennaio 2017

Donne di Marocco

Entriamo nell'hammam che è quasi sera, abbiamo poco tempo perché alle sette è il turno degli uomini e bisogna lasciargli il posto. Le donne berbere all'ingresso scompariranno assieme agli stracci, al sapone che sembra caramello e ai loro occhi impossibili e verranno sostituite da nerboruti custodi che praticano altrettanto nerboruti massaggi, rigorosamente unisex. Escono le donne ed entrano gli uomini, difficile vederli contemporaneamente qui.
La signora che sta all'ingresso dell'hammam dimostra ottant'anni ma probabilmente è più giovane di mia madre, ha un viso duro che contrasta con la morbidezza del vestito e le sue parole schizzano come mine, né mercichoukran servono a fermarle. Quando vede la fotocamera del mio cellulare si infuria, le fotografie rubano l'anima, dicono, e io non vorrei mai rubarle niente, sono mortificata ma non ci sono parole che possano avvicinarci.
Ce ne andiamo piuttosto di fretta e infreddolite, niente prese di corrente e quindi niente asciugacapelli e il vapore delle stanze non rimane sulla pelle, che però è liscia e levigata come le stoffe di qui. Ci inoltriamo nel souk che brulica di gente, ovviamente uomini che vendono qualsiasi cosa e anche qualche venditrice donna. Sono molto poche: vendono olio di argan, cibo, e qualcuna, rarissima, sta dietro al bancone di un bar o di una bottega, velo sempre e comunque. Hanno con sé i bambini o gli strumenti del lavoro, non si vede qui una donna in pubblico senza qualcosa accanto a sé. Gli uomini invece sono sempre fuori, al mercato, da soli o in compagnia, impegnati o nullafacenti, spesso a mani vuote. Giriamo l'angolo e appare una signora anziana, curva sotto un carico di fascine, che sale la strada pianissimo ma senza arrestarsi. Nessuno l'aiuta.
Ci fermiamo in un villaggio più piccolo, in quella che sembra la piazza centrale dove si trova un bar con l'insegna della Coca Cola (in arabo) che pullula di uomini in djellaba. Anche qui, manco a dirlo, nemmeno una donna, e io sono indecisa se togliermi la camicia o meno data l'escursione termica di mezzogiorno. Sono una turista, quindi tutto bene, ma è strano starmene seduta a bere, fumare e mangiare con le braccia nude che si scaldano al sole, i tatuaggi e la mia maglietta dei Ramones e sapere di essere l'unica donna presente a farlo. Nessun uomo dice mai niente, ma mi piacerebbe parlare con un'altra donna, anche solo per non capirsi e ricevere occhiate che hanno una voce, che squarciano la povertà delle parole.
L'ultima sera andiamo in un bar moderno, nella Marrakech francese fatta di grandi boulevard e licenze per la vendita di alcolici. Ci fanno entrare nonostante il nostro abbigliamento trekking-straccione, perché siamo occidentali, e ci scortano in una sala col DJ, musica altissima e tavoli rotondi con servizio cocktail e shisha (narghilè). Qui ci sono varie ragazze marocchine, senza velo, bellissime e vestite molto meglio di me che ballano, bevono, fumano il narghilè. Mi sembra di essere in un flashback del mio Erasmus, gente internazionale e locale che fa festa. Tutti conoscono il francese, mi basterebbe alzarmi e andare a parlare, ma per qualche motivo non lo faccio.

Ci sono silenzi assordanti, che spiccano di più nei luoghi pieni di colori e profumi e dove tutto è disegnato e intarsiato senza mai uno spazio vuoto, come i prodigiosi motivi arabi che decorano gli edifici più importanti. Per me, qui, è stato il silenzio degli occhi della donna berbera, occhi che non si fanno rubare, né dimenticare.


Marrakech, palazzo El Bahia, dicembre 2016

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