venerdì 27 marzo 2020

Mani


Mia nonna ha mani curate, sembrano morbide ma io in verità non lo so, perché non le posa mai su di me. É un pomeriggio di autunno e la luce filtra densa tra le persiane, lei siede in una poltrona verde coi braccioli che la fa stare dritta come una regina.
- Come stai, nonna? - domando, mentre con gli occhi frugo tra le sue mani chiuse attorno a qualcosa, mi ricordano delle conchiglie e quasi mi aspetto di trovarci dentro una perla.
- Bene - dice, anzi stride, la sua voce si va assottigliando sempre di più col tempo che passa, è una metamorfosi che colpisce tutti gli anziani della casa di riposo, e quando vengo a trovarla esco frastornata come se fossi stata allo zoo, o in una voliera gigante.
- Che cos'hai in mano? - chiedo dolcemente.
- Niente - risponde, tirandosi subito le mani al petto e girando la testa dall'altra parte tutta impettita, sembra un enorme Ara con le piume di flanella.
- Ma come, niente? Dai, fammi vedere - insisto con un sorriso, ma la nonna si arrocca su se stessa sempre di più e mi lancia un'occhiata diffidente, da uccello in gabbia.
- É mio, non te lo do - brontola sottovoce senza guardarmi, le mani strette addosso.
Mio malgrado, scoppio a ridere. Quando ero piccola facevo scene simili con mia mamma, lei cercava di convincermi a fare qualcosa ma io non volevo saperne e mi nascondevo sotto al tavolo, dietro al letto, dentro ai suoi vestiti, una volta mi sono infilata nel suo impermeabile appeso nella cabina armadio e ci sono rimasta un sacco di tempo, finché la sua voce tenera che mi chiamava non è diventata uno squillo di sirena, allora sono saltata fuori ridendo e l'ho trovata accartocciata sul divano in preda all'angoscia, il telefono che le ballava nelle mani tremanti, e mi sono spaventata tanto che sono scoppiata a piangere ed è stata lei a dovermi consolare.
L'infermiera entra nella stanza con il vassoio del pranzo. É robusta e spiccia, mi ricorda la signora polacca che veniva da noi a stirare e che io bambina guardavo lavorare di nascosto, la temevo molto più di mia madre.
- Ecco qua, signora Iris - dice con gentilezza, appoggiando il vassoio sul tavolino di fianco alla poltrona. Zuppa, purè con pollo lesso a pezzetti e una specie di mattonella di mela cotogna. La nonna guarda il pasto con una smorfia e si gira ostentatamente dall'altra parte.
- Forza signora, dobbiamo mangiare - dice l'infermiera incoraggiante, lanciandomi uno sguardo d'intesa. Io, non so perché, alzo gli occhi al cielo e scuoto la testa, con un'espressione solidale. Ricordo le occhiate tra i miei genitori quando non riuscivano a gestirmi, potevo leggervi la loro esasperazione e mi faceva sentire ancora più cattiva, avrei voluto urlare, rovesciare le preziose piante di mia madre e spargere terra e foglie tutto intorno, come nella giungla.
La nonna borbotta qualcosa, sempre dandoci le spalle, l'infermiera prova ad avvicinarsi col cucchiaio di zuppa ma la nonna ha uno scatto, e col gomito appuntito colpisce il braccio dell'infermiera, che rovescia tutto.
- Signora! - esclama lei spazientita, molla il cucchiaio sul vassoio e marcia fuori, immagino a prendere uno straccio. La nonna non fa una piega, e quando mi avvicino a lei per rimproverarla scorgo un'espressione di trionfo che le illumina tutto il viso. Provo il forte impulso di abbracciarla, la mia regina di picche.
- Nonna, non è carino fare così - dico invece, chinandomi per salvare il salvabile. Mentre me ne sto abbassata a radunare i pezzi di cibo, nella stanza entra un altro ospite della casa di riposo. La nonna si riscuote e si raddrizza tutta, sull'attenti. L'uomo avrà più o meno la sua età, si porta dietro una flebo a cui si appoggia a mo' di bastone, ha capelli radi e un naso imponente che lo fa assomigliare a un tucano.
- Ciao, Iris - dice l'uomo, e la sua voce è profonda e cavernosa, scuote la calma della stanza.
La nonna non risponde e rimane con le mani in grembo, stringendo gelosamente il loro contenuto. L'uomo si avvicina a fatica, sostenendosi con la flebo, arriva dietro alla nonna che non si volta, continuando a covare il suo tesoro. Rimangono lì fermi, lui vecchio colosso appeso a un filo, lei pappagallo grigio con gli occhi pieni di voli. Poi, lui allunga una mano verso di lei.
A questo punto sono interdetta, forse dovrei intervenire, ma per qualche motivo non faccio niente.
Guardo l'uomo sfiorare i pochi capelli della nonna, allungarsi verso le sue mani serrate e con delicatezza infilarci dentro qualcosa. Nel ritrarsi, le sfiora di nuovo i capelli, questa volta con più intenzione. La nonna finalmente schiude le sue mani conchiglie.
Tra le dita di nonna Iris brillano due biglie di vetro, occhi spalancati nel buio che avanza.
- Per giocare - dice l'uomo, non so se a me o a lei, poi lentamente si gira e se ne va, trascinandosi dietro al suo vessillo. Quando è già uscito, sento la nonna dire a bassa voce: - Bruno -.
Le prendo le mani con delicatezza e lei me lo lascia fare, penso al nonno Bruno e ai giochi scatenati che facevamo prima dell'enfisema che se l'è preso, lasciando Iris a invecchiare con grazia nella loro bella casa, piena di noi nipoti sempre più grandi. Una volta, quando ancora viveva lì, la nonna mi aveva detto: - Invecchiare è come tornare bambini -, e io non avevo saputo cosa risponderle.
Le biglie sono calde nelle nostre mani, io la guardo e le dico: - Nonna, giochiamo -.


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